Un’antica e isolata popolazione abitava il Sahara verde
I genomi di due donne vissute nel sud-est dell’attuale Libia 7000 anni fa, quando al posto del deserto c’era una savana, raccontano di una popolazione rimasta isolata per millenni e fanno luce su come si diffuse il pastoralismo nella regione
di Martina Saporiti
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Difficile immaginarlo, ma un tempo il Sahara, il più grande deserto caldo della Terra, era una regione verdeggiante piena d’acqua e di vita selvatica, come testimoniano le pitture rupestri locali che raffigurano giraffe, elefanti e altri animali assieme a figure umane (l’arte rupestre del massiccio Tadrart Acacus, in Libia occidentale, è patrimonio UNESCO). Fu il cambiamento climatico che seguì l’ultima era glaciale a dare inizio al cosiddetto Periodo umido africano: piogge e umidità trasformarono quella che oggi è un’immensa distesa di sabbia (oltre nove milioni di chilometri quadrati) in un ecosistema alberato tipo savana, con laghi e un esteso sistema di fiumi.
Il “Sahara verde” fu tale da 14.500 a 5000 anni fa, ed era abitato da gruppi di pastori e cacciatori-raccoglitori come dimostrano i numerosi reperti archeologici rinvenuti. Ma chi erano e da dove venivano queste antiche popolazioni del Sahara verde? Gli antropologi non lo hanno mai saputo per certo, e non perché non gli interessasse: mancava DNA da analizzare, questo perché si degrada rapidamente in condizioni di grande aridità. Ma un po’ di fortuna e soprattutto i progressi nelle tecniche di sequenziamento del genoma hanno reso possibile quello che prima era impensabile.

Così, in uno studio pubblicato sulle pagine della rivista “Nature”, un gruppo di ricerca coordinato da Johannes Krause, direttore del Max-Planck-Institut per l’antropologia evoluzionistica a Lipsia, in Germania, presenta i risultati del sequenziamento dei primi due genomi del Sahara verde: due donne naturalmente mummificate vissute 7000 anni fa, nel mezzo del periodo pastorale nord-africano.
I resti sono stati scoperti nel rifugio roccioso di Takarkori, nel sud-ovest della Libia, dalla missione archeologica della “Sapienza” Università di Roma che, assieme all’Università di Firenze, ha partecipato allo studio. Il nuovo DNA, estratto da denti e perone, racconta finalmente la storia delle antiche popolazioni del Sahara e fa luce sui processi che portarono alla diffusione del pastoralismo nella regione. Come ci ha raccontato l’antropologo del Dipartimento di biologia dell’Università di Firenze David Caramelli, tra gli autori del paper, i resti di Takarkori avevano già catturato l’attenzione degli scienziati.
“Qualche anno fa ne avevamo già analizzato il DNA mitocondriale intuendo si trattasse di una linea genetica particolare, ma solo ora ne abbiamo avuto conferma mettendo assieme i genomi completi”, ha spiegato.
Confrontando questo DNA con quello di esseri umani antichi e moderni di Africa, Asia ed Europa, il gruppo di ricerca ha scoperto un’affinità genetica con cacciatori-raccoglitori vissuti 15.000 anni fa (prima del Periodo umido africano) e sepolti nella grotta di Taforalt, in Marocco, 1600 chilometri a nord-ovest di Takarkori. Soprattutto, è venuto fuori che sia le donne di Takarkori sia gli individui di Taforalt sono distanti, geneticamente parlando, dalle popolazioni sub-sahariane. Questo significa che discendono da una popolazione nord-africana rimasta isolata per millenni, la cui eredità genetica sopravvive oggi solo parzialmente in Nord Africa.
“Non c’è continuità genetica tra nord-africani e sub-sahariani, ma non sappiamo se a causa di barriere di carattere culturale oppure fisico”, ha spiegato Caramelli.
Quello che è certo, però, è che il Sahara verde non è stato un corridoio di affollate migrazioni tra Nord Africa e Africa sub-sahariana come alcuni pensavano. Anche se isolati, questi antichi abitanti del Sahara verde hanno comunque avuto contatti con sapiens di ritorno dall’Eurasia. Questo perché nelle donne di Takarkori gli scienziati hanno trovato traccia di DNA neanderthaliano, in quantità minime (dieci volte inferiori a quelle delle popolazioni non africane) ma comunque superiori rispetto agli africani sub-sahariani contemporanei.
“Circa 50.000 anni fa, alcuni gruppi di sapiens uscirono dall’Africa e si ‘mescolarono’ con i Neanderthal”, chiarisce l’antropologo. “Quando poi sui 15.000 anni fa tornarono in Africa, scappando da un’Europa in piena era glaciale, hanno portato con sé la componente neanderthaliana che abbiamo ritrovato nei genomi di Takarkori.”
Ancora una volta, il fatto che la quota neandertaliana sia minima conferma l’ipotesi centrale dello studio, ovvero l’unicità genetica – frutto dell’isolamento – di questa antica popolazione nord-africana.

Ciò, di riflesso, suggerisce che la diffusione dell’allevamento nel Sahara verde sia avvenuta attraverso contaminazioni culturali, non genetiche, cioè dovute a migrazioni di massa di pastori “stranieri” (un po’ come accadde per la rivoluzione del Neolitico nel Maghreb orientale).
“La pastorizia è stato uno scambio di carattere culturale, ovvero di conoscenze, ma non avendo condotto analisi genetiche sui resti animali non sappiamo da dove arrivasse il bestiame, principalmente pecore”, conclude Caramelli. “Forse dall’Asia sud-occidentale, ma non possiamo escludere processi di domesticazione locali, a partire da specie già presenti nella regione.”