Cambiamento climatico e sindrome di Kessler: i gas serra aumentano la vita dei detriti spaziali
La continua emissione di gas serra sta portando all’alterazione climatica della troposfera terrestre, ma recenti studi sembrano evidenziare effetti anche alle quote più elevate, che si manifestano come un raffreddamento e una contrazione della termosfera. Contraendosi, la termosfera ripulisce con meno efficacia l’orbita bassa terrestre dai detriti spaziali, aumentando il rischio di collisione a catena: uno scenario che porta alla “sindrome di Kessler”
di Albino Carbognani
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La maggior parte della ricerca sui cambiamenti climatici causati dai gas serra immessi nell’atmosfera terrestre si è sempre concentrata sulla troposfera, perché le alterazioni che avvengono in questa regione hanno conseguenze immediate sulla biosfera terrestre. Tuttavia, con il rapido aumento dell’utilizzo di satelliti nell’orbita terrestre bassa (Low Earth Orbit, Leo) è aumentata notevolmente la dipendenza da questa regione che si estende dai 200 fino ai 2000 km al di sopra della superficie terrestre. La zona Leo, però, non è al di sopra dell’atmosfera, ma è in parte immersa nella termosfera, la quarta regione in cui viene idealmente divisa l’atmosfera terrestre, che si estende da 95 fino a 550 km. Ad esempio, visto che orbita a circa 400 km di quota, la Stazione spaziale internazionale si muove all’interno della termosfera e periodicamente i motori di assetto ne devono aumentare la quota per evitare che cada sulla Terra. Se proprio vogliamo essere pignoli, l’atmosfera terrestre non termina nemmeno con la termosfera: oltre si trova uno strato ancora più rarefatto, l’esosfera, che progressivamente svanisce nello spazio.
Le tracce lasciate da un satellite in Leo della costellazione dei Globalstar ripreso il 5 febbraio 2025 dal sistema Tandem della Stazione astronomica di Loiano dell’Inaf Oas Bologna, nell’ambito delle attività di sorveglianza spaziale e tracking satellitare. Nel centro dell’immagine la traccia diventa più luminosa per effetto della rotazione del satellite attorno al proprio asse. Crediti: A. Carbognani/Inaf
La termosfera si contrae e si espande con un periodo di circa 11 anni in risposta al normale ciclo di attività del Sole. Quando l’attività del Sole è bassa, la Terra riceve meno radiazioni Uv/X e l’atmosfera più esterna si raffredda e si contrae, prima di espandersi di nuovo durante il massimo solare successivo. Negli anni Novanta del secolo scorso i ricercatori che si occupavano del clima iniziarono a chiedersi come avrebbe reagito la termosfera in seguito all’aumento dei gas serra. I primi modelli matematici mostrarono che, mentre i gas serra tendono a intrappolare il calore nella troposfera favorendo un aumento globale della temperatura, gli stessi gas irraggiano calore a quote più elevate, raffreddando la termosfera che, di conseguenza, dovrebbe contrarsi riducendo la densità atmosferica alle alte quote. Nell’ultimo decennio, grazie alle misure sull’attrito atmosferico sperimentato dai satelliti, questo effetto di contrazione sistematica è stato effettivamente verificato. Questa contrazione della termosfera si sovrappone al ciclo naturale di espansione e contrazione dovuto al Sole.
Un gruppo di ricercatori del Mit (Massachusetts Institute of Technology) si è chiesto come la risposta della termosfera ai gas serra possa influenzare il numero di satelliti in grado di operare in sicurezza nell’orbita bassa terrestre e il risultato che hanno trovato è molto interessante. Attualmente in Leo ci sono oltre diecimila satelliti operativi che forniscono servizi essenziali tra cui Internet, comunicazioni, navigazione, previsioni meteorologiche e servizi bancari. La popolazione dei satelliti in questa regione è aumentata vertiginosamente negli ultimi anni anche grazie al contributo della costellazione degli Starlink e gli operatori devono eseguire regolari manovre anticollisione per minimizzare la probabilità che i propri satelliti vengano colpiti da qualche frammento o collidano fra loro. Dal 1961 sono stati registrati più di 650 eventi di frammentazione in orbita. Solo 7 eventi sono stati associati a collisioni e la maggior parte degli eventi attuali sono state esplosioni di veicoli spaziali e stadi di razzi, tuttavia in futuro le collisioni diventeranno la fonte dominante di detriti spaziali. Qualsiasi esplosione o collisione può generare space debris che possono rimanere in orbita per decenni o secoli, aumentando la possibilità di collisioni con satelliti vecchi e nuovi.
Numero di oggetti noti in orbita terrestre in funzione del tempo. UI = Non identificato; RM = Oggetto correlato alla missione di un razzo; RD = Detriti razzo; RF = Detriti di frammentazione razzo; RB = Corpo del razzo; PM = Oggetto correlato alla missione del carico utile; PD = Detriti del carico utile; PF = Detriti di frammentazione del carico utile; PL = Carico utile. Crediti: Esa/Space Environment Report 2024
Come misura per limitare il numero di satelliti abbandonati in Leo, la Federal Communications Commission degli Stati Uniti ha recentemente approvato una norma che richiede di deorbitare il satellite “il prima possibile e non più di cinque anni dopo la fine della missione” e anche l’Esa raccomanda una tempistica simile. Tuttavia, fino a poco tempo fa, una deorbitazione di 25 anni dopo la fine della missione era lo standard. Queste indicate però sono solo linee guida, non un obbligo e per i satelliti non manovrabili – ossia privi di motore che ne possa ridurre la velocità per farli ricadere in modo controllato verso terra – la tempistica di deorbitazione dipende interamente dal decadimento dovuto all’attrito atmosferico e qui sorge il problema. Se la termosfera si contrae per effetto del raffreddamento innescato dall’eccesso di gas serra, allora i satelliti non più operativi e gli space debris restano in orbita più a lungo perché l’operazione di frenamento – con conseguente “pulizia” – che esercita l’atmosfera è ridotta. Come conseguenza gli space debris si accumulano e aumenta la probabilità di collisioni, che a loro volta generano altri space debris e così via fino alle estreme conseguenze: la temuta sindrome di Kessler, in cui c’è un incremento esponenziale della probabilità di collisione e l’orbita bassa diventa talmente ostile che nessun satellite può sperare di sopravvivere. Alcune regioni ad alta quota hanno già una densità di oggetti sufficientemente elevata da poter manifestare un’instabilità incontrollata, in particolare tra i 900 e i 1400 km.
I ricercatori del Mit hanno simulato diversi scenari di emissioni di gas serra per indagare le conseguenze sulla densità atmosferica e l’attrito che subiscono i satelliti mentre orbitano attorno alla Terra. L’orbita bassa è stata suddivisa in diversi “gusci” e all’interno di ciascuno di questi sono state modellate le dinamiche orbitali e la probabilità di collisioni in base al numero di oggetti all’interno del guscio. Nello scenario che vede continui aumenti delle emissioni di gas serra, il team stima che entro la fine di questo secolo il numero di satelliti che potranno essere ospitati in sicurezza fra 200 e 1000 chilometri di quota potrebbe essere ridotto del 50-66 per cento rispetto a uno scenario in cui le emissioni di gas serra rimangono ai livelli dell’anno 2000. Se il numero massimo di satelliti venisse superato, anche solo in una regione locale, allora si sperimenterebbe una “instabilità incontrollata”, ovvero una cascata di collisioni che creerebbe così tanti space debris che i satelliti non potrebbero più operare in sicurezza – in pratica, la sindrome di Kessler.
«Non c’é dubbio che le prospettive per l’utilizzo a lungo termine della regione dei Leo dipendono in larga misura dalla nostra capacità di mantenere l’alta atmosfera quanto più libera possibile dai detriti spaziali», commenta Alberto Buzzoni, astronomo all’Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio dell’Inaf di Bologna ed esperto di tecnologie spaziali. «Difficilmente questa pulizia potrà delegarsi per intero a un nostro intervento attivo tramite missioni ad hoc di satelliti “spazzini”. La tecnologia è certamente matura e attuabile, ma a costi assolutamente proibitivi a fronte dei potenziali benefici sul lungo termine. Appare quindi realistico pensare che l’effetto auto-pulente dell’atmosfera rimarrà il vero meccanismo primario su cui contare per gestire in sicurezza il nostro accesso allo spazio nel futuro prossimo: un motivo in più per cercare di invertire (o per lo meno controllare) il trend attuale delle emissioni di gas serra».