Le sonde Voyager della NASA trovano nuovi enigmi oltre il sistema solare
Per due decenni, le iconiche sonde gemelle Voyager hanno silenziosamente capovolto tutto quello che pensavamo di sapere sul confine tra il nostro sistema solare e lo spazio interstellare. Resta però ancora molto da capire di quelle regioni remote e altre missioni le raggiungeranno
di Meghan Bartels/Scientific American
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In tutti i millenni in cui l’umanità ha fissato le stelle e nei decenni in cui ha lanciato sonde per esplorare il nostro universo, solo due navicelle spaziali con strumenti funzionanti sono riuscite a uscire dalla bolla dello spazio governata dal Sole.
Le due navicelle gemelle Voyager sono state lanciate nel 1977 per un epico tour dei pianeti esterni; entrambe sono passate davanti a Giove e Saturno, mentre Voyager 2 ha aggiunto Urano e Nettuno all’itinerario. Da allora le due navicelle hanno continuato a viaggiare verso l’esterno e molti dei loro strumenti hanno proseguito le osservazioni nonostante le sfide poste dall’invecchiamento della tecnologia e dal calo dell’alimentazione elettrica. Il 16 dicembre 2004, Voyager 1 ha raggiunto il termination shock, l’inizio della sua transizione di anni verso lo spazio interstellare. Voyager 2 ha superato la stessa soglia nel 2007. Negli anni successivi, le navicelle hanno fornito all’umanità l’unico assaggio diretto di ciò che si trova ai margini e oltre la bolla dell’influenza del Sole sullo spazio, un’area che gli scienziati chiamano eliosfera.
“Oggi sappiamo quanto poco sappiamo dell’eliosfera”, afferma Merav Opher, fisica dello spazio dell’Università di Boston. “È molto più complessa e dinamica di quanto pensassimo.”
Ecco che cosa sanno gli scienziati: noi terrestri di tutti i giorni possiamo semplicisticamente pensare al Sole come a una palla di luce compatta e distante, in parte perché la nostra atmosfera soffice ci protegge dai rischi peggiori della nostra stella. Ma in realtà il Sole è una massa vorticosa di plasma e magnetismo che si irradia per miliardi di chilometri sotto forma di vento solare, un flusso costante di plasma carico che si sprigiona dalla nostra stella. Il campo magnetico del Sole viaggia con il vento solare e influenza anche lo spazio tra i pianeti. L’eliosfera cresce e si restringe in risposta ai cambiamenti dei livelli di attività del Sole nel corso di un ciclo di 11 anni.
“In tutta l’eliosfera, ogni 11 anni, si osservano questi drastici sbalzi, fatti di minimi e massimi, cali e picchi”, spiega Jamie Rankin, fisica dello spazio alla Princeton University e vice responsabile del progetto della missione Voyager. E, osserva, gli astronomi di ogni tipo sono intrappolati in questo sfondo caotico in modi che possono o meno influenzare i loro dati e le loro interpretazioni. “Ogni nostra misurazione fino a oggi, fino a quando le sonde Voyager non hanno attraversato l’eliopausa, è stata filtrata attraverso tutti i diversi strati del Sole”, sottolinea Rankin.
Nel loro viaggio verso lo spazio interstellare, le Voyager hanno dovuto attraversare una serie di confini: prima un termination shock a circa sette miliardi od otto miliardi di chilometri dal Sole, dove il vento solare inizia bruscamente a rallentare, poi l’eliopausa, dove la pressione verso l’esterno del vento solare è pari alla pressione interna del mezzo interstellare. Tra questi due confini netti si trova l’elioguaina, una regione in cui il materiale solare continua a rallentare e persino a invertire la direzione. Il viaggio attraverso questi confini ha richiesto a Voyager 1, la più veloce delle sonde gemelle, quasi otto anni; tale è la vastità delle dimensioni in gioco.
Oltre l’eliopausa c’è lo spazio interstellare, nel quale Voyager 1 è entrata nel 2012 e Voyager 2 nel 2018. Si tratta di un ambiente molto diverso da quello all’interno della nostra eliosfera: più tranquillo, ma a malapena placido.
“È una reliquia dell’ambiente in cui è nato il sistema solare”, dice Rankin del mezzo interstellare. Al suo interno si trovano frammenti atomici energetici chiamati raggi cosmici galattici, oltre alla polvere espulsa dalle stelle morenti nel corso degli eoni dell’universo, tra gli altri ingredienti.
Il mezzo interstellare varia all’interno della galassia, con aree più dense e più tenui che si alternano tra i bracci a spirale della Via Lattea. Il nostro Sole e la bolla che crea attraversano questo mezzo interstellare e l’interazione tra la dinamica del Sole e il mezzo interstellare influenza la forma dell’eliosfera.
Quale sia questa forma, tuttavia, gli scienziati non lo sanno ancora. La forma dell’eliosfera potrebbe somigliare a quella di una cometa, con una lunga coda che segue un naso compatto dove il Sole si spinge nello spazio interstellare. O forse l’interazione tra il campo magnetico del Sole e il mezzo interstellare modella la bolla in una forma simile a un croissant, con due lobi che seguono la nostra stella. L’eliosfera potrebbe anche assumere qualche altra forma che gli scienziati non hanno ancora preso in considerazione; la certezza è difficile dalla nostra vista limitata sulla Terra.
“È come se fossimo pesci rossi che cercano di misurare la loro boccia dall’interno, senza riuscire ad arrivare ai bordi”, chiarisce Sarah Spitzer, fisica dello spazio al Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele.
Le sonde Voyager sono le eccezioni accidentali a questa sfida. Le due navicelle gemelle sono state progettate come esploratori dei pianeti esterni e il programma ha fornito all’umanità le prime – e finora uniche – viste ravvicinate di Urano e Nettuno. Nel 1989 le osservazioni erano terminate, ma le sonde erano ancora in buona salute. La NASA le ha quindi mantenute in vita, spegnendo però gli strumenti che non avrebbero prodotto dati interessanti senza pianeti da osservare. Nel frattempo passano gli anni e le Voyager si spingono sempre più verso l’esterno, nuotando verso le pareti della nostra vasca cosmica per pesci rossi.
Ma i pesci rossi non se ne stavano con le mani in mano. Nel 2008 la NASA ha lanciato l’Interstellar Boundary Explorer (IBEX), che orbita intorno alla Terra e campiona le particelle, chiamate atomi neutri energetici, che arrivano dal bordo dell’eliosfera. Gli scienziati possono utilizzare le misurazioni dell’IBEX sulle caratteristiche di queste particelle per ricostruire ciò che sta accadendo laggiù, a miliardi di chilometri di distanza.
Tra i contributi principali di IBEX c’è la scoperta di un nastro di atomi neutri energetici che attraversa l’eliosfera. Gli scienziati pensano che questo nastro possa essere causato da particelle che rimbalzano dentro e fuori l’eliosfera. Ma in un esempio di sfortuna cosmica, le sonde Voyager non sono state in grado di studiare direttamente il nastro di IBEX: sono passate ai suoi lati. “Proprio in mezzo a loro c’è la cosa più grande e più evidente dell’eliosfera esterna”, aggiunge David McComas, fisico dello spazio alla Princeton University e ricercatore principale di IBEX.
È esattamente il tipo di situazione che mostra i limiti dell’affidarsi a osservazioni locali di qualcosa di così ampio come la vasta bolla dell’influenza della nostra stella.
“Le Voyager sono molto simili a biopsie dell’eliosfera”, dice McComas. “Non sappiamo nulla della struttura tridimensionale globale dell’eliosfera esterna solo da queste due serie di punti.”
IBEX sta ancora osservando, poiché è la missione durata molto più a lungo di quanto originariamente previsto, e la sonda è riuscita a raccogliere dati durante un ciclo solare completo di 11 anni per osservare la risposta dell’eliosfera all’attività del Sole. Ma McComas è anche impegnato a preparare un’altra missione di cui è a capo pronta a essere lanciata il prossimo anno. McComas descrive la missione Interstellar Mapping and Acceleration Probe (IMAP) come “IBEX con gli steroidi”, con le stesse capacità di base ma con risoluzioni più nitide e con l’aggiunta di misure supplementari, come l’analisi dei grani di polvere interstellare – detriti di stelle morte – che si intrufolano nel sistema solare.
Nel frattempo, altri scienziati stanno progettando di raccogliere direttamente altre osservazioni dalla regione. Un’altra sonda è già pronta a seguire le Voyager fuori dall’eliosfera: la missione New Horizons della NASA, che ha sfrecciato oltre Plutone nel 2015. Dopo aver studiato il pianeta nano (e, nel 2019, un oggetto roccioso ancora più distante chiamato Arrokoth), la sonda è in procinto di attraversare l’eliopausa tra circa un decennio. E gli scienziati sperano che i suoi strumenti siano ancora funzionanti, pronti per la terza spedizione dell’umanità oltre l’influenza del Sole.
Gli scienziati hanno anche progettato una missione candidata, denominata Interstellar Probe che, a differenza delle Voyager e di New Horizons, è fatta su misura per illuminare le zone più esterne dell’eliosfera e oltre. La missione userebbe un enorme razzo per uscire velocemente dal sistema solare, trasportando strumenti progettati per studiare il plasma e i campi magnetici invece dei corpi rocciosi e viaggiando idealmente abbastanza lontano da poter guardare indietro e discernere la forma sfuggente della nostra eliosfera da lontano. Ma questa missione non è stata raccomandata come prioritaria da un piano decennale recentemente pubblicato che ha tracciato la mappa dell’eliofisica statunitense per il prossimo decennio, e questo riduce le possibilità per gli scienziati della nazione di campionare il mezzo interstellare in tempi brevi. (I ricercatori cinesi potrebbero essere più fortunati perché il paese sta portando avanti una propria missione interstellare.)
Per il momento, gli scienziati sono ancora fermi a studiare i segnali che provengono dalle sonde Voyager. Per certi versi, si tratta di una ricchezza di informazioni: circa due decenni di dati sul confine dello spazio interstellare e su ciò che si trova al di là, provenienti da due navicelle in due luoghi diversi. I dati restituiti sono ricchi di stranezze, con una sonda che sembra aver attraversato il termination shock cinque volte diverse, forse perché l’eliosfera fluttuava dentro e fuori in sincronia con la forza variabile del vento solare. Ma le osservazioni a distanza delle Voyager sono anche semplici briciole di pane, scorci allettanti di una regione che si trova quasi fuori dalla nostra portata, esattamente il tipo di dati che sollevano più domande che risposte.
Una cosa è certa: a prescindere dalla fine della loro missione, le sonde Voyager lasceranno agli scienziati la voglia di avere più dati dallo spazio interstellare. “Gli strumenti si spegneranno prima di avere un quadro completo”, conclude Opher. “Ma avere le Voyager che vanno avanti il più possibile non ha prezzo.”