Il permafrost è una bomba ad orologeria per il pianeta

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Il permafrost è una bomba ad orologeria per il pianeta

Un viaggio nelle profondità della Taylor Valley in Antartide, dove lo scioglimento del permafrost sta lentamente liberando gas serra mettendo a rischio il clima globale
 di Valentina Romano e Alessandra Sciarra
Tratto da ingvambiente

Il risveglio del gigante

Il permafrost, il terreno che rimane costantemente congelato per almeno due anni consecutivi, si estende su circa un quarto delle terre emerse dell’emisfero settentrionale. Questa sconfinata distesa di terra ghiacciata, formatasi tra 1,8 milioni e 10.000 anni fa, svolge un ruolo cruciale per la stabilità del suolo e degli ecosistemi.

Il permafrost è anche un immenso deposito di carbonio organico, equivalente al doppio di quello attualmente presente nell’atmosfera terrestre. Per millenni, questo carbonio è rimasto intrappolato nel terreno ghiacciato, come in una capsula del tempo. Ma l’aumento delle temperature globali sta risvegliando questo gigante dormiente, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per il nostro pianeta.

Ghiaccio sotto il permafrost alle isole Spitzbergen

Le conseguenze

Il progressivo scongelamento del permafrost libera nell’atmosfera enormi quantità di gas serra, principalmente anidride carbonica (CO2) e metano (CH4). Il metano, in particolare, è un gas serra molto potente, con un potenziale di riscaldamento globale 28 volte superiore a quello della CO₂ in un orizzonte temporale di 100 anni.

Questi gas serra contribuiscono al riscaldamento globale, innescando un pericoloso circolo vizioso. Più il permafrost scompare, più gas serra vengono rilasciati, amplificando l’effetto serra e accelerando ulteriormente la fusione. È come una bomba a orologeria climatica pronta a esplodere.

La ricerca sul permafrost nell’emisfero settentrionale ha compiuto notevoli progressi. Si stima infatti che negli ultimi due decenni il permafrost nell’area artica abbia rilasciato circa 144 milioni di tonnellate di carbonio totale.

Lo studio del permafrost in Antartide è ancora in una fase iniziale. E’ chiaro però che se dovesse scongelarsi completamente, potrebbero essere rilasciate quantità di CO2 e CH4 stimate intorno ai 150-200 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente nel lungo termine, una quantità simile a quella che la Foresta Amazzonica ha assorbito in secoli di crescita!

L’Antartide e la Taylor Valley

Ricerche condotte negli ultimi anni suggeriscono che anche il permafrost antartico sta iniziando a scomparire, con potenziali conseguenze devastanti per il clima globale. Recentemente l’attenzione degli scienziati si è rivolta così anche a questo continente remoto, in particolare alla Taylor Valley, una delle valli delle McMurdo Dry Valleys che offre un ambiente unico per lo studio del permafrost. Priva di copertura glaciale, questa valle permette ai ricercatori di accedere direttamente al permafrost e studiarne le caratteristiche.

Ubicazione dell’area di studio della Taylor Valley, Antartide

Il progetto SENECA e le sue scoperte

Il progetto SENECA, coordinato dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, si è concentrato proprio sullo studio del permafrost in questa regione. Durante l’estate antartica del 2019-2020, il team di ricercatori ha condotto una serie di misurazioni geofisiche nella Taylor Valley utilizzando tecnologie all’avanguardia. Grazie a queste indagini, è stato possibile mappare la distribuzione del permafrost e identificare la presenza di falde saline (brine) a diverse profondità. I dati raccolti hanno rivelato una struttura idrogeologica complessa, con due principali livelli:

  • Un sistema superficiale, collegato ai corpi idrici superficiali come i laghi.
  • Un sistema più profondo, che si estende su scala regionale.

La presenza di queste brine rappresenta una scoperta significativa, poiché suggerisce che la scomparsa del permafrost in Antartide potrebbe essere influenzato non solo dal riscaldamento atmosferico, ma anche da processi idrogeologici interni. Le brine, infatti, con la loro salinità elevata, possono accelerare il processo di disgelo dal basso, erodendo il permafrost e creando percorsi preferenziali per la risalita di gas serra.

Il team INGV ha inoltre condotto uno studio in cui sono stati analizzati campioni di gas prelevati dal suolo nella Taylor Valley, rilevando elevate concentrazioni di anidride carbonica, metano ed elio (He). I ricercatori hanno ipotizzato che questi gas risalgano verso la superficie attraverso fratture nel permafrost. Il processo di fusione del permafrost potrebbe intensificare la risalita di gas serra, trasformando l’Antartide da un serbatoio di carbonio a una fonte di emissioni. La presenza di elio, in particolare, suggerisce un’origine profonda di questi gas, probabilmente collegata proprio al sistema di brine profonde evidenziate dalle prospezioni geofisiche.

Il futuro del permafrost antartico

Questi studi preliminari sul permafrost in Antartide hanno evidenziato l’importanza e  la portata del problema. La fusione del permafrost potrebbe avere conseguenze catastrofiche per il pianeta, liberando enormi quantità di gas serra nell’atmosfera e accelerando il riscaldamento globale.

È fondamentale intensificare gli sforzi di ricerca per monitorare lo stato del permafrost antartico, sviluppare modelli climatici più accurati e trovare soluzioni per mitigare i rischi.

Il progetto SENECA rappresenta un importante passo avanti in questa direzione, aprendo la strada a nuove ricerche e collaborazioni internazionali.

Il futuro del nostro pianeta dipende dalla nostra capacità di comprendere e affrontare questa sfida. Dobbiamo agire ora per preservare il fragile equilibrio del nostro ecosistema e garantire un futuro sostenibile per le generazioni future.

Campione di permafrost raccolto nella Taylor Valley (foto di A. Sciarra)

Il  progetto SENECA, finanziato dal Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), ha avuto l’obiettivo di studiare il rilascio di gas serra dal permafrost antartico e dagli strati superficiali soggetti al disgelo, utilizzando tecniche geochimiche, geofisiche e petrografiche. Il progetto vede la collaborazione di un team di ricerca internazionale che coinvolge istituti e università di diverse nazioni: l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) di Roma, la GNS Science e l’Università di Waikatodella Nuova Zelanda, l’Università di Oslo in Norvegia, l’Università di Roma La Sapienza, l’Università di Padova e il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).

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