A che ora è la fine del mondo? Gli scienziati spostano in avanti le lancette

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A che ora è la fine del mondo? Gli scienziati spostano in avanti le lancette

L’evoluzione del Sole, prima o poi, metterà in crisi gli ecosistemi terrestri con un aumento di temperatura insostenibile. Ma le piante e la vita come la conosciamo potrebbero avere davanti a sé da 1,3 a 1,8 miliardi di anni, cioè diverse centinaia di milioni di anni più di quanto ritenuto finora
di Massimo Sandal
www.lescienze.it

©Detlev Van Ravenswaay/Science Photo Library ()

La vita sulla Terra forse ha ancora una lunga vita davanti a sé; e questo potrebbe implicare che abbiamo più possibilità di scoprire vita nell’universo. La speranza sorge da uno studio, pubblicato come preprint non ancora sottoposto a revisione paritaria, condotto da R.J.Graham e Dorian Abbot dell’Università di Chicago e Itay Halevy del Weizmann Institute di Rehovot, in Israele.

Se oggi il Sole permette l’esistenza della vita sulla Terra, un domani sarà proprio la nostra stella a distruggerla. Il Sole splende perché fonde ogni secondo circa 600 milioni di tonnellate di idrogeno, generando elio, che si accumula al centro e “gonfia” lentamente la stella, rendendolo poco a poco più grande e luminoso. È un fenomeno comune a tutte le stelle; lentissimo e del tutto irrilevante nel contesto dell’attuale cambiamento climatico, interamente dovuto alla civiltà umana. Fra un miliardo di anni però il Sole sarà del 10 per cento più luminoso di oggi: una variazione impossibile da trascurare.

Questa evoluzione, prima o poi, metterà in crisi i nostri ecosistemi, e in particolare le creature alle loro fondamenta: le piante. Da un lato la temperatura media del nostro pianeta sarà troppo alta per permettere la fotosintesi. Dall’altro, l’aumento di temperatura accelera la degradazione atmosferica dei silicati. Questo processo, tuttora parte fondamentale del ciclo del carbonio, rimuove anidride carbonica dall’atmosfera e lo accumula sotto forma di carbonato di calcio nella crosta terrestre. E dipende esponenzialmente dalla temperatura; se oggi agisce come un termostato, stabilizzando in parte il clima, sotto un Sole troppo brillante potrebbe accelerare talmente tanto da svuotare l’atmosfera di anidride carbonica. Senza anidride carbonica da trasformare in zuccheri tramite la fotosintesi, le piante non possono nutrirsi; senza piante a sostenere la catena alimentare e la produzione di ossigeno gli ecosistemi complessi collassano. A sopravvivere, forse, qualche batterio ipertermofilo.


Una lenta apocalisse che, secondo i modelli correnti, dovrebbe accadere entro poche centinaia di milioni di anni, un miliardo di anni al massimo. Graham e collaboratori ora però rivedono al rialzo queste previsioni. I calcoli precedenti infatti avevano sottostimato la capacità delle piante di resistere a condizioni estreme. Considerando l’efficienza degli enzimi coinvolti, la fotosintesi dovrebbe essere impossibile se la concentrazione di CO2 scende sotto alle 10 ppm (parti per milione; per confronto, oggi viaggiamo poco sotto a 420 ppm). Numerose piante però possono sfruttare un’atmosfera assai più povera di CO2, anche sotto a 3 ppm, concentrando la CO2 nelle foglie: sono quelle che hanno evoluto la cosiddetta fotosintesi C4, come per esempio il mais, o quella CAM, come l’ananas e i cactus.

E se finora 50 °C era considerato il limite superiore per l’esistenza delle piante, Graham e colleghi fanno notare come in realtà alcune sopravvivono a temperature notevolmente elevate. L’erba Dichanthelium lanuginosum, che cresce vicino a fonti termali, sopporta temperature delle radici vicine a 65 °C. Piante del deserto come Hammada scoparia o Tidestromia oblongifolia crescono al meglio oltre i 40 °C, e riescono a proseguire la fotosintesi anche intorno ai 60°. I cianobatteri fotosintetici proliferano in sorgenti calde a 74 °C.

Considerando dunque nel loro modello la fotosintesi C4, limiti più elevati di temperatura per la vegetazione basati sulle piante oggi esistenti, nonché dati recenti secondo cui la degradazione dei silicati potrebbe non dipendere così drasticamente dalle temperature, Graham e colleghi arrivano alla conclusione che le piante – e quindi la vita sulla Terra come la conosciamo – hanno davanti a sé da 1,3 a 1,8 miliardi di anni: 300-800 milioni di anni più di quanto ritenuto finora. Ma è bene non sottovalutare Darwin: in centinaia di milioni di anni la vegetazione si potrebbe evolvere per sopravvivere a temperature ancora superiori; come dicono gli autori dello studio “’adattamento delle piante a un ambiente in mutamento potrebbe spingere la loro estinzione ancora più in là”.


Un futuro remotissimo che non vedremo mai, ma che offre opportunità per il presente. Se le biosfere di tipo terrestre possono resistere a lungo, questo significa che nell’universo ne esistono di più: anche sistemi planetari sostanzialmente più vecchi del Sole infatti potrebbero ospitare la vita. La vita extraterrestre potrebbe dunque essere più diffusa del previsto. Quanto più a lungo sopravvive la vita su di un pianeta, tanto più è plausibile inoltre che si evolvano civiltà tecnologiche.

Non abbiamo idea di quanto sia rara l’evoluzione di specie intelligenti come la nostra; ma se la vita era destinata a perire nel corso di poche centinaia di milioni di anni Homo sapiens allora è arrivato piuttosto tardi nel corso della storia della vita sulla Terra – e quindi la nostra evoluzione poteva essere un evento improbabile, avvenuto fortunosamente “appena in tempo”. Se invece la vita ha ancora quasi due miliardi di anni davanti a sé, allora la nostra specie è comparsa a due terzi circa della storia totale della vita – e a meno di metà del tempo concesso all’esistenza di forme di vita pluricellulari complesse. Il che potrebbe voler dire, dunque, che la nostra esistenza tutto sommato non è così eccezionale.


Si tratta di previsioni da prendere con un pizzico di cautela. Come fanno notare gli stessi ricercatori, saranno necessari modelli matematici più raffinati, che tengano conto in modo più dettagliato dell’evoluzione del clima della Terra futura. Amedeo Balbi, professore associato di astronomia e astrofisica all’Università di Roma Tor Vergata, dichiara a “Le Scienze” che “È uno studio che certamente illumina nuovi aspetti della questione. A sua volta, mostra quante incertezze ancora esistano quando si prova ad analizzare la complessa rete di relazioni tra le diverse componenti del sistema Terra, inclusa la biosfera. La presenza di feedback, il numero di variabili coinvolte e la difficoltà nell’avere stime accurate dei loro valori rende questo genere di proiezioni a lungo termine piuttosto problematiche. In generale, l’eventuale estensione della durata della biosfera di pianeti abitabili significa solo che c’è una maggiore probabilità di osservare possibili biofirme in altri pianeti, mentre tutta la parte statistica legata alla probabilità dell’evoluzione della vita intelligente va presa con molta cautela.”


Presto o tardi, verrà comunque il giorno in cui la Terra smetterà di ospitare la vita. Per quanto possa ingegnarsi l’evoluzione, l’evaporazione degli oceani scatenerà prima o poi un effetto serra incontrollato dovuto all’eccesso di vapore acqueo. Questo chiuderà il sipario sulla biosfera: la Terra diventerà un mondo arido e rovente coperto di nubi, simile a Venere.

Se anche qualche forma di vita potesse sopravvivere a tali condizioni, nulla potrà quando il Sole diventerà una gigante rossa, la cui superficie lambirà l’orbita terrestre; a quel punto il nostro pianeta, non più verde e azzurro, ma ridotto a rossa sfera di roccia fusa, quasi certamente si disintegrerà diventando parte della nostra stella. Ma forse quel giorno ci saranno altri occhi a osservare incuriositi, da un altro mondo più giovane, una nuova stella scarlatta nel cielo.

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