L’Emilia Romagna è al primo posto in Italia per consumo di suolo in aree a rischio idrogeologico

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L’Emilia Romagna è al primo posto in Italia per consumo di suolo in aree a rischio idrogeologico

Wwf: «Rinaturalizzare gli alvei fluviali, individuando aree di espansione naturale, applicare le soluzioni basate sulla natura e se necessario delocalizzare le infrastrutture»
Di Redazione Greenreport

Le conseguenze del ciclone Boris – che si è abbattuto sull’Italia dopo aver portato devastazione in Romania, Repubblica Ceca, Polonia, Austria e Slovacchia – sono tornate a portare a galla l’evidenza della crisi climatica sul territorio nazionale, ma anche la stringente necessità di frenare (e invertire) il consumo di suolo, che è concausa dei disastri “naturali”.

In Italia ben il 94% dei Comuni è a rischio per frane, alluvioni o erosione costiera, un contesto che vede l’Emilia Romagna in prima linea sia per il rischio sia per la cementificazione che l’alimenta. «È un caso eclatante del fallimento della pianificazione e prevenzione del dissesto idrogeologico – spiegano nel merito dal Wwf Italia – nonostante la Regione abbia approvato nel 2017 una legge sulla tutela e l’uso del suolo, che intendeva ridurre il consumo a zero entro il 2050, il consumo di suolo in questi ultimi anni è continuato ad aumentare, posizionando l’Emilia-Romagna al terzo posto per suolo consumato e al primo posto per occupazione di aree a rischio idrogeologico, come emerso dall’ultimo rapporto di Ispra sul consumo di suolo. Quasi il 9% del territorio dell’Emilia Romagna è impermeabilizzato, un valore altissimo considerando che la media nazionale è del 7%. Un valore ancora più alto per un territorio fragile dove quasi la metà della regione ricade in aree a pericolosità idraulica media».

L’approccio con interventi per stati di emergenza realizzati negli ultimi decenni, senza una programmazione, artificializzando ancora di più gli alvei dei fiumi con rettificazioni, argini, prelievo di inerti e taglio della vegetazione ha dimostrato ampiamente la sua inefficacia. Dobbiamo cambiare le modalità di gestione dei fiumi, come richiesto dall’Ue con la Strategia per la biodiversità e la legge per il ripristino della natura, entrambe peraltro avversate dal Governo Meloni.

Come argomentano dal Panda nazionale, occorre «una seria programmazione per comprensorio di bacino idrografico, rinaturalizzando gli alvei fluviali, individuando aree di espansione naturale, applicando le Soluzioni basate sulla natura (Nbs) e se necessario delocalizzare le infrastrutture con un maggior beneficio per la sicurezza, qualità ambientale ed efficacia ed efficienza nell’impiego delle risorse economiche».

«Tra il 2010 e il 2020 il numero di alluvioni in Italia è raddoppiato rispetto al decennio precedente – aggiunge nel merito il presidente della Società italiana di medicina ambientale (Sima), Alessandro Miani – Tuttavia esistono soluzioni praticabili per ridurre il rischio alluvionale e mitigarne gli effetti. Le buone pratiche includono l’adozione di infrastrutture verdi, come parchi fluviali e bacini di espansione, che permettono di assorbire le acque piovane in eccesso. La città di Bologna, ad esempio, ha investito in un sistema di drenaggio sostenibile che permette di ridurre il carico sulle fognature durante le forti piogge. In Olanda, il progetto “Room for the river” ha creato zone alluvionali naturali che riducono la pressione sui sistemi di dighe, permettendo al fiume di espandersi in aree controllate. Questo ha ridotto notevolmente il rischio di alluvioni nelle aree urbane. Anche in Germania, lungo il fiume Reno, sono stati creati bacini di ritenzione che permettono di controllare il flusso delle acque e ridurre i danni durante le piene. Secondo l’Agenzia ambientale europea (Eea), ogni euro investito in prevenzione può far risparmiare fino a sei euro in spese di riparazione dei danni. È quindi cruciale che l’Italia adotti un approccio più sistematico alla gestione del rischio idrogeologico, implementando politiche di prevenzione su larga scala e promuovendo la collaborazione tra governo, comunità locali e settore privato».

Tutto questo però non sta avvenendo. Anche il Progetto di rinaturazione del Po, proposto da Wwf e Anepla, inserito nel Pnrr per 357 milioni di euro e che prevede 56 interventi nel bacino padano coinvolgendo Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, procede a rilento, ostaggio dei pioppicoltori che hanno ottenuto lo stralcio di parte delle aree fluviali che sarebbero dovute essere rinaturalizzate. Purtroppo quello che doveva essere il più importante progetto di rinaturazione e adattamento ai cambiamenti climatici si trascina con una gestione inadeguata e incapace di gestirne la complessità. Siamo ancora in tempo per “imparare” da questa prima lezione e da quanto si sta facendo in Europa lungo Emsher, Reno, Danubio , Drava e molti altri fiumi.

«In Italia – concludono nel merito dal Wwf – sono presenti almeno 11.000 barriere, tra dighe, briglie e traverse  (numero fortemente in difetto) e molte di queste barriere sono obsolete, non servono nemmeno più allo scopo per cui sono state costruite e dovrebbero essere rimosse. Purtroppo, nonostante questa situazione e mentre la Strategia Europea per la biodiversità prevede di riconnettere e riqualificare, anche attraverso la rimozioni di barriere (briglie, dighe, traverse…), almeno 25.000 km di fiumi in Europa entro il 2030, in Italia si continua ad artificializzare i fiumi, a progettare e realizzare dighe (come quelle proposte: diga di Vetto in Emilia Romagna e diga del Vanoi in Veneto), e traverse che ne interrompono la continuità ecologica e morfologica, a occupare le aree di loro pertinenza, indispensabili per ridurre gli effetti delle piene e, in definitiva, ad aumentare la vulnerabilità del territorio».

Anche le dighe, al contempo, dove utili e ben pianificate offrono almeno tre servizi indispensabili: immagazzinano e frenano la corsa delle acque dei fiumi in caso di piena, permettono gli usi idropotabile e irriguo dell’acqua, oltre alla produzione di energia idroelettrica. Per capire quando è bene affidarsi a queste infrastrutture, o al contrario quando è necessario procedere a rinaturalizzazione spinta, è necessaria una valutazione complessiva; per questo è imprescindibile dare governarnce e risorse adeguate al già approvato Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico (Pnacc), oltre a realizzare un Piano nazionale per la sicurezza idrica e idrogeologica. Per quest’ultimo una proposta c’è già, elaborata dalla Fondazione Earth and water agenda, e vale 176,5 mld di euro in 10 anni.

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