Anche il Tevere deve fare i conti con la risalita del cuneo salino
La crisi idrica degli ultimi anni, con la conseguente infiltrazione di acqua salata dal mare, sta minacciando la salute del suolo e le coltivazioni anche vicino alla foce del fiume laziale. È così iniziata una campagna di rilievi per monitorare e quantificare l’impatto del fenomeno sull’agricoltura locale in una logica di prevenzione
di Federico Turrisi
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“Nel 2017, quando la crisi idrica del lago di Bracciano rischiò di fare razionare l’acqua nella Capitale, l’attenzione del mondo si concentrò su Roma. Oggi si sta salinizzando il fiume Tevere con gravi ripercussioni sull’agricoltura di grandi aree vocate a produrre cibo, ma nessuno ne parla”. A lanciare questo allarme all’inizio di giugno è stato il direttore generale dll’Associazione nazionale dei consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue (ANBI), Massimo Gargano.
Solitamente quando si parla di intrusione del cuneo salino, ovvero di quel fenomeno per cui l’acqua del mare risale verso l’entroterra e va a salinizzare progressivamente il suolo, la prima area italiana che viene in mente è il delta del Po. Nell’estate 2022 la portata del fiume più lungo d’Italia era ai minimi storici e il cuneo salino è risalito di circa 40 chilometri, creando preoccupazione tra gli agricoltori. Un’elevata concentrazione di sale nell’acqua (la soglia critica per i sistemi di irrigazione indicata dalla FAO è di due grammi per litro) rischia infatti di azzerare la fertilità del suolo rendendone impossibile la coltivazione.
Adesso anche il Tevere è diventato un osservato speciale. Per avere un quadro più chiaro della situazione, il Consorzio di bonifica Litorale nord di Roma ha attivato un accordo di collaborazione tecnico-scientifica con il gruppo di ricerca del professor Paolo Tarolli del Dipartimento territorio e sistemi agro-forestali (TESAF) dell’Università di Padova, che negli ultimi due anni ha indagato l’impatto dell’intrusione del cuneo salino sulle colture del delta del Po.
“L’approccio adottato per il Tevere è davvero degno di lode: non è un agire secondo una logica di emergenza, ma è un investire in prevenzione”, sottolinea Tarolli. “L’obiettivo è comprendere, dati scientifici alla mano, se il problema esiste, qual è la sua entità e quali azioni occorre intraprendere per arginarlo.” Da poche settimane è iniziata la campagna di rilievi sul campo, precisamente nell’area compresa tra Ostia, Fiumicino e Maccarese, attraverso apparecchiature d’avanguardia come sonde portatili e sensori remoti.
“Lungo il canale che da Ponte Galeria, punto di prelievo dal Tevere, va a Castel di Guido preleviamo a ogni chilometro un campione d’acqua con una cadenza di 15 giorni per capire il grado di salinità. Inoltre, in tutta l’area di studio eseguiamo delle misure in campo e preleviamo dei campioni di suolo per analizzare sempre il contenuto di sale e altri parametri”, spiega il professor Tarolli. “Confrontando i dati raccolti con le immagini acquisite da droni e satelliti, possiamo per esempio valutare il livello di stress delle colture dovuto a una maggiore salinità del terreno.”
Il litorale laziale presenta non poche differenze rispetto al delta del Po. Quest’ultimo, innanzitutto, si trova in un territorio posto al di sotto del livello del mare. “In più, è soggetto a fenomeni di subsidenza (cioè di abbassamento del suolo) legati ad attività antropiche di alcuni decenni fa, in particolare all’estrazione di acque metanifere”, aggiunge Tarolli. “Quello alla foce del Tevere è un territorio maggiormente antropizzato e per certi versi molto più facile da studiare perché c’è solo un canale di presa, a differenza della moltitudine di canali del delta del Po.”
Ritrovarsi un territorio fortemente salinizzato può essere un vero e proprio disastro per le comunità locali che dipendono dalle produzioni agricole. Anche perché bisogna considerare che i danni provocati dall’intrusione del cuneo salino sono difficilmente riparabili. Negli anni si può verificare un accumulo di residui salini e ripristinare un equilibrio a livello di ecosistema diventa molto complicato.
“Per dare un’idea della gravità del fenomeno, a distanza di un anno e mezzo dalla fine della risalita del cuneo salino (la portata del fiume ritorna a livelli normali grazie alle piogge), il problema della salinizzazione dei terreni nel delta del Po non è affatto risolto. Addirittura si sono verificati episodi di microdesertificazione, per cui è assai arduo recuperare la vitalità del suolo”, prosegue Tarolli.
Quali sono dunque le strategie di adattamento e mitigazione di fronte alla risalita del cuneo salino? A spiegarlo è sempre Tarolli, che su questo argomento ha recentemente pubblicato uno studio sulla rivista “iScience”. “Non esiste un intervento, ma un insieme di interventi da considerare nel loro insieme: la creazione di barriere mobili, che si attivano quando la portata del fiume è molto debole, o di zone cuscinetto, che vadano a disperdere l’infiltrazione dell’acqua salata. O ancora, la selezione di varietà di colture più tolleranti a livelli elevati di salinità. E poi vale come regola generale l’aumento della sostanza organica del suolo.”
In piena crisi climatica, il contrasto alla risalita del cuneo salino è un tema sempre più al centro dell’attenzione della comunità scientifica e delle istituzioni a livello internazionale. Intervenire in tempo per limitare il problema significa garantire la tenuta socio-economica di intere regioni. “L’agricoltura costiera in molte zone del mondo ha un’importante valenza sociale e culturale: non parliamo solo di perdita di valore economico, ma anche di memoria storica e di pregio paesaggistico”, conclude Tarolli.