Alcuni pazienti “morti” ma sopravvissuti hanno riportato lucide “esperienze di pre-morte”
Uno studio ha mostrato che in soggetti colpiti da arresto cardiaco, un’intensa attività cerebrale durante la rianimazione cardiopolmonare salvavita può essere un segno di “esperienze di morte lucide e ricordate”
di Rachel Nuwer/Scientific American
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Che cosa succede quando moriamo davvero, quando il nostro cuore si ferma e tutta l’attività elettrica si “spegne” nel nostro cervello? Gli esseri umani si pongono questa domanda da sempre. È una domanda difficile, perché i morti non ci rispondono sulla natura delle loro esperienze. I testi religiosi sono in grado di fornire una moltitudine di spiegazioni. Ma gli scienziati non hanno rinunciato a fornire una propria serie di risposte, e stanno facendo alcuni passi avanti per capire meglio il processo di transizione del cervello dalla vita alla morte.
Di recente, ciò è stato possibile grazie a ricerche che hanno monitorato il cervello di persone che erano in procinto di morire davvero. Alcune di queste persone sono state in grado di riferire ciò che hanno vissuto. Secondo i risultati pubblicati il 14 settembre sulla rivista “Resuscitation”, il cervello dall’elettroencefalogramma piatto di alcuni pazienti in arresto cardiaco è esploso in un turbinio di attività durante la rianimazione cardiopolmonare, malgrado il loro cuore avesse smesso di battere anche un’ora prima. Un piccolo sottogruppo di partecipanti allo studio che sono sopravvissuti sono stati in grado di ricordare l’esperienza, e una persona è riuscita a identificare uno stimolo uditivo riprodotto mentre i medici cercavano di rianimarli.
I ricercatori interpretano le registrazioni cerebrali effettuate su questi pazienti come marcatori di “esperienze di morte lucide e ricordate”, un’osservazione che “non è mai stata possibile prima”, afferma l’autore principale Sam Parnia, professore associato di medicina alla NYU LangoneHealth e ricercatore di lunga data su quello che accade alle persone quando muoiono. “Siamo anche riusciti a dare una spiegazione coerente e razionale del perché questo avvenga.”
Le “esperienze di morte ricordate” – un termine che Parnia preferisce a “esperienze di pre-morte” per la sua accuratezza – sono state riportate in diverse culture nel corso della storia. Alcuni scienziati occidentali hanno in passato liquidato questi racconti come allucinazioni o sogni, ma recentemente alcuni gruppi di ricerca hanno iniziato a prestare maggiore attenzione a questi fenomeni come mezzo per indagare la coscienza e fare luce sui misteri della morte.
Nel nuovo studio, Parnia e i suoi colleghi hanno cercato di trovare una firma biologica delle esperienze di morte ricordate. Hanno collaborato con 25 ospedali, principalmente negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Il personale medico ha usato dispositivi portatili che potevano essere collocati sulla testa dei pazienti durante un’emergenza cardiaca per misurare i livelli di ossigeno cerebrale e l’attività elettrica senza interferire con il trattamento medico. I ricercatori hanno anche testato le percezioni consce e inconsce mettendo ai pazienti delle cuffie che riproducevano una registrazione ripetuta dei nomi di tre frutti: banana, pera e mela. In termini di apprendimento inconscio, una persona che non ricorda di aver sentito i nomi di questi frutti ma a cui viene chiesto di “pensare a tre frutti a caso” può comunque dare la risposta giusta, sottolinea Parnia. Ricerche passate hanno dimostrato, per esempio, che anche le persone in coma profondo possono imparare inconsciamente i nomi di frutti o di città se queste parole vengono sussurrate loro all’orecchio.
Tra maggio 2017 e marzo 2020, negli ospedali che hanno partecipato allo studio sono state 567 le persone andate in arresto cardiaco. Il personale medico è riuscito a raccogliere dati utilizzabili sull’ossigeno e sull’attività cerebrale di 53 di questi pazienti, per la maggior parte dei quali sui tracciati elettroencefalografici (EEG) appariva una linea piatta. Ma circa il 40 per cento ha poi sperimentato un’attività elettrica che è riemersa a un certo punto con onde cerebrali normali o quasi normali, coerenti con la coscienza. Questa attività è stata talvolta ripristinata fino a 60 minuti dopo la rianimazione cardiopolmonare.
Dei 567 pazienti totali, solo 53 sono sopravvissuti. I ricercatori hanno intervistato 28 di loro. Hanno intervistato anche 126 soggetti della comunità di persone che avevano subito un arresto cardiaco, perché il campione di sopravvissuti del nuovo studio era molto piccolo. Quasi il 40 per cento ha riferito di aver percepito una certa consapevolezza dell’evento senza ricordi specifici, mentre il 20 per cento sembra aver avuto un’esperienza di morte ricordata. Molti di questi ultimi hanno descritto l’evento come una “valutazione morale” di “tutta la loro vita e di come si sono comportati”, spiega Parnia.
Nelle interviste con i sopravvissuti, i ricercatori hanno scoperto che solo una persona è stata in grado di ricordare i nomi dei frutti che erano stati fatti sentire mentre i pazienti erano sottoposti alla rianimazione cardiopolmonare. Parnia riconosce tuttavia che questa persona potrebbe aver indovinato i frutti corretti per caso. Lui e i suoi colleghi hanno sviluppato un’ipotesi di lavoro per spiegare i loro risultati. Normalmente, il cervello dispone di “sistemi di frenata” che filtrano la maggior parte degli elementi della funzione cerebrale dalla nostra esperienza di coscienza. Questo permette alle persone di operare in modo efficiente nel mondo, perché in circostanze normali “non si potrebbe funzionare se l’intera attività cerebrale avesse accesso al regno della coscienza”, sottolinea l’autore.
Nel cervello morente, tuttavia, i ricercatori ipotizzano che il sistema frenante sia rimosso. Le parti normalmente inattive diventano attive e la persona morente ha accesso alla sua intera coscienza: “Tutti i suoi pensieri, tutti i suoi ricordi, tutto ciò che è stato immagazzinato in precedenza”, aggiunge Parnia. “Non ne conosciamo i benefici evolutivi, ma sembra che prepari le persone al passaggio dalla vita alla morte.”
I risultati sollevano anche domande sulla capacità del cervello di resistere alla mancanza di ossigeno. Secondo Parnia, è possibile che alcune persone che convenzionalmente sono state ritenute al di là del punto di salvezza possano in realtà essere rianimate. “Il pensiero dei medici è che il cervello, una volta privato dell’ossigeno per cinque o dieci minuti, muoia”, afferma Parnia. “Siamo riusciti a dimostrare che il cervello è piuttosto robusto in termini di capacità di resistere alla privazione di ossigeno per periodi di tempo prolungati, il che apre nuove strade per trovare in futuro trattamenti per i danni cerebrali.”
Il nuovo studio “rappresenta uno sforzo erculeo per comprendere nel modo più oggettivo possibile la natura della funzione cerebrale che può essere applicata alla coscienza e alle esperienze di pre-morte durante l’arresto cardiaco”, afferma Lakhmir Chawla, medico dell’unità di terapia intensiva del Jennifer Moreno Department of Veterans Affairs Medical Center di San Diego, in California, che non è stato coinvolto nella ricerca ma ha pubblicato articoli su picchi di attività EEG al momento della morte in alcuni pazienti.
Anche se i risultati riportati da Parnia e dai suoi colleghi sono “sorprendenti” da un punto di vista scientifico, “credo che dovremmo permettere a questi dati di informare anche la nostra umanità”, aggiunge. Per esempio, i risultati dovrebbero “costringere i medici a trattare i pazienti che ricevono la rianimazione cardiopolmonare come se fossero svegli”, cosa che “facciamo raramente”. E per gli individui che sembrano non poter essere salvati, Chawla sostiene che i medici potrebbero invitare i familiari a venire a salutarli, “perché il paziente potrebbe ancora essere in grado di sentirli”.