Trovati frammenti di una meteora proveniente da un’altra stella?
Minuscole sfere di metallo fusosi tempo fa e di recente dragate dal fondo del mare potrebbero essere frammenti di IM1, una meteora che ha colpito il nostro pianeta nel 2014 e che potrebbe essere arrivata sulla Terra da un altro sistema planetario
di Amir Siraj/Scientific American
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Nelle ultime due settimane ho circumnavigato il mondo via terra, aria e mare. Il motivo? Un pezzo di materiale interstellare delle dimensioni di un lavandino da cucina che, secondo me e i miei colleghi, si è scontrato con la Terra a oltre 160.000 chilometri all’ora quasi un decennio fa. Dopo anni di sforzi, potremmo finalmente aver trovato pezzi di questo oggetto sfuggente sul fondo dell’Oceano Pacifico, circa 1,5 chilometri sotto le onde.
La storia è iniziata nell’aprile 2019, quando ho trovato quella che si pensa sia la prima meteora interstellare conosciuta, nascosta in bella vista nei dati accessibili al pubblico forniti dal governo degli Stati Uniti. Chiamato IM1, questo oggetto era bruciato nell’atmosfera e aveva fatto piovere frammenti nell’oceano al largo della costa dell’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, cinque anni prima, registrandosi come una palla di fuoco luminosa e dalla velocità anomala nei sensori dei satelliti spia segreti e gestiti dal Department of Defense degli Stati Uniti. In collaborazione con il mio tutor di allora, l’astrofisico Avi Loeb di Harvard, analizzai i dati del governo statunitense per dimostrare come la traiettoria e altre proprietà della palla di fuoco di IM fossero coerenti con l’origine interstellare della meteora.
All’inizio sembrava troppo bello per essere vero; gli scienziati erano alla ricerca di meteore interstellari da almeno sette decenni, ed eccomi qui, al secondo anno di università, seduto nel mio dormitorio, a pensare di averne acchiappata una. E di sicuro c’era una fregatura, ma non aveva nulla a che fare con i miei calcoli. Poiché i dati provenivano da satelliti spia, il governo degli Stati Uniti non pubblicava la precisione delle misurazioni. Senza conoscere il livello di precisione, non potevamo sapere con certezza se IM1 fosse davvero interstellare o solo un caso fortuito.
Ci sono voluti tre anni prima che i funzionari del governo statunitense confermassero pubblicamente che i dati satellitari supportavano la nostra ipotesi interstellare per IM1. Nell’attesa, sognavo di cercare frammenti dell’oggetto sul fondo dell’oceano e per saperne di più mi sono rivolto all’unico gruppo che abbia mai cercato materiale meteoritico sottomarino proveniente da una caduta di meteoriti osservata. Si scoprì che l’acqua profonda circa 1,6 chilometri nella regione più probabile in cui caddero i detriti di IM1 sarebbe stata vantaggiosa, poiché la relativa inaccessibilità di quelle profondità avrebbe garantito che i frammenti rimanessero intatti. Così, una volta arrivata la conferma ufficiale, è iniziata la pianificazione di un viaggio oceanico verso 1.3S, 147.6E.
Dire che stavamo cercando un ago in un pagliaio sarebbe un profondo eufemismo; cercare piccoli pezzi di una meteora sul fondo del mare è in realtà molto più difficile. Ma proprio come un ago d’acciaio (e a differenza della maggior parte dei detriti del fondo oceanico), i frammenti meteoritici tendono a contenere materiale ferroso. Ciò significa che molti pezzi dovrebbero attaccarsi ai magneti. La nostra strategia era quindi semplice: trascinare una slitta magnetica sul fondale marino all’interno del campo di detriti previsto per IM1, nella speranza di recuperare qualche frammento. Trovarne anche solo uno sarebbe una scoperta storica, rappresentando la prima volta che l’umanità entra consapevolmente in contatto diretto con materiale proveniente da un altro sistema planetario. Proprio come la scoperta del primo esopianeta, la scoperta e lo studio del primo meteorite interstellare aprirebbe nuovi orizzonti scientifici in cui potremmo vedere e capire meglio il nostro contesto cosmico, rivelando dettagli altrimenti nascosti sulla coalescenza di stelle e pianeti in altre parti della nostra galassia.
Nei mesi precedenti la spedizione, che si sarebbe svolta a bordo di una nave chiamata Silver Star, mi sono concentrato sulla pianificazione scientifica, mentre Avi si è occupato dei finanziamenti e della logistica. Usando i dati sismici d’archivio degli strumenti terrestri che avevano rilevato il boom sonico della palla di fuoco di IM1, sono riuscito a localizzare il campo di detriti risultante a circa 80 chilometri al largo dell’isola di Manus, in un arco di mare aperto sette volte più piccolo dell’area fornitaci dal Department of Defense. Questa localizzazione avrebbe permesso di realizzare il mio sogno di possedere per la prima volta un pezzo di storia, un vero e proprio oggetto interstellare.
Cinquanta ore dopo essere partito dal matrimonio di mia sorella nella campagna inglese, sono arrivato a Manus Island, dove la nostra cara nave da spedizione, Silver Star, ospitava un gruppo di livello mondiale per realizzare il mio sogno. Mentre ero in Inghilterra, il gruppo della spedizione aveva già trovato alcuni interessanti e variegati detriti di origine umana, tra cui fili e trucioli d’acciaio.
Quando sono salito a bordo della Silver Star, la ricerca non aveva ancora prodotto materiale interstellare. Non c’era da stupirsi, visto che stavamo cercando di trovare un ago nel pagliaio più implacabile del mondo. Gran parte della ricerca fino a quel momento era stata motivata dallo sforzo di trovare frammenti relativamente grandi: di dimensioni millimetriche o superiori. I frammenti di dimensioni millimetriche sarebbero più facili da trovare rispetto a quelli sub-millimetrici, e in più avrebbero una massa maggiore. Ma ho ricordato al gruppo che, per avere successo, dovevamo cercare aghi ancora più piccoli, quelli che potrebbero non essere visibili a occhio nudo. Più piccoli sono i pezzi, maggiore è l’abbondanza. Più grande è l’abbondanza, più alta è la possibilità di trovare un frammento di IM1. In particolare, ciò significava concentrarsi sulla ricerca di materiale di dimensioni comprese tra 10 e 700 micrometri, corrispondenti alle dimensioni delle minuscole gocce di metallo fuso che si raffreddano in sfere quando piovono dalle meteore metalliche. Entro due ore dal mio arrivo, avevamo recuperato una sferula di questo tipo, delle dimensioni di qualche centinaio di micrometri, da un campione raccolto lungo la striscia che avevo calcolato essere il luogo più probabile dell’esplosione aerea di IM1. Abbiamo immediatamente iniziato a cercarne altre.
Alla fine della spedizione, il nostro conteggio finale era di ben 50 sferule, di dimensioni comprese tra 100 e 700 micrometri, la maggior parte delle quali proveniva dalla striscia di ricerca che avevo calcolato. Un’analisi dettagliata con una strumentazione all’avanguardia dovrebbe produrre un conteggio ancora più elevato e una soglia di dimensioni inferiori.
Queste sferule sono allettanti, soprattutto perché molte di esse presentano anomalie di composizione rispetto a quelle tipiche. Alcune potrebbero rappresentare il primo materiale mai recuperato da un oggetto interstellare? Oppure appartengono alla popolazione di fondo di sferule provenienti da meteore “locali” del sistema solare, che si sono accumulate sul fondo del mare nel corso del tempo geologico? Oppure sono state prodotte dagli esseri umani, tramite processi ad alta temperatura come la saldatura?
Una risposta definitiva emergerà dallo studio delle firme isotopiche incorporate nelle sferule. Rispetto alle sferule di meteoriti comuni, una sovrabbondanza di isotopi rari (o una sottoabbondanza di isotopi comuni) in quelle raccolte nella nostra regione di ricerca sarebbe una prova inconfutabile dell’origine interstellare di IM1. Questa analisi isotopica è attualmente in corso all’Università della California, Berkeley, e inizierà presto alla Harvard University.
La scoperta di materiale proveniente da una meteora interstellare sarebbe un enorme risultato scientifico. Per contestualizzare, una stima ottimistica del tempo necessario per recuperare un campione simile dal sistema stellare più vicino è paragonabile all’età della nostra specie. Al contrario, la natura potrebbe aver consegnato un dono interstellare alla nostra porta cosmica, che ci ha richiesto meno di un decennio per essere recuperato.
Mentre attendiamo i risultati dell’analisi isotopica di IM1, una cosa è certa: anche se non dovessimo trovare nulla, l’esperienza di aver fatto la prima ricerca fornirà informazioni alla nostra prossima missione per trovare materiale da un altro candidato interstellare: il più massiccio IM2, che ha creato una vistosa palla di fuoco al largo della costa del Portogallo nel marzo 2017. Con un’attenta pianificazione e un pizzico di fortuna, prima o poi dovremmo scoprire i segreti cosmici contenuti nei frammenti dei messaggeri interstellari.
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L’autore
Amir Siraj è ricercatore al Dipartimento di scienze astrofisiche della Princeton University. Ha anche conseguito un master in pianoforte al New England Conservatory. È stato il più giovane vincitore di Forbes 30 Under 30 nella lista Science del 2021.