Il nostro cervello sembra percepire il silenzio come se fosse un suono

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Il nostro cervello sembra percepire il silenzio come se fosse un suono

Alcuni esperimenti mostrano come il silenzio, che per definizione è l’assenza di suoni o rumori percepiti, produca in realtà le stesse illusioni uditive dei suoni. Il che stimola le riflessioni filosofiche sulla nostra percezione anche di altre assenze come le ombre o i buchi
di Shayla Love/Scientific American
www.lescienze.it

Nell’agosto del 1952, in una sala da concerto vicino a Woodstock, nello Stato di New York, il pianista David Tudor eseguì la composizione in tre movimenti 4’33” di John Cage. Per farlo non erano necessari enormi “salti” con la mano destra. La maggior parte delle persone avrebbe potuto suonare il pezzo con la stessa abilità. Tudor impostò un timer su 33 secondi e si sedette davanti al pianoforte senza toccare i tasti. Aprì e richiuse il coperchio della tastiera prima di sedersi per altri due minuti e 40 secondi; poi lo fece di nuovo per un intervallo finale di un minuto e 20 secondi. Poi s’inchinò e lasciò il palco.

Come disse Cage, 4’33″ era un “pezzo silenzioso”. Il compositore voleva spingere gli spettatori ad ascoltare gli altri suoni che li circondavano. “Non esiste uno spazio vuoto o un tempo vuoto”, disse in seguito Cage. “C’è sempre qualcosa da vedere, qualcosa da sentire. In effetti, per quanto ci sforziamo di fare silenzio, non possiamo.”

Il modo in cui tradizionalmente pensiamo all’ascolto è il sentire un rumore, una canzone, la voce di un amico, il clacson di un’auto. Ma questi suoni sono inevitabilmente punteggiati da pause di silenzio che segnano l’assenza di onde sonore. Il silenzio è parte integrante della nostra esperienza quotidiana: la pausa imbarazzante in una conversazione, il secondo dopo un tuono, l’attimo dopo la fine di un brano musicale prima che inizi l’applauso. L’espressione “silenzio assordante” è persino un modo di dire comune.

Per i neuroscienziati, capire il modo in cui percepiamo il silenzio è come un koan Zen [un’affermazione o domanda paradossale utilizzata nel Buddismo Zen giapponese come tecnica di meditazione, NdT]: devono letteralmente confrontarsi con il suono di una mano che applaude da sola. La sfida si riduce a poche questioni: il cervello “sente” effettivamente il silenzio come un input elaborato dal suo sistema uditivo, come se fosse il clacson di un’auto? Oppure l’organo deduce questi spazi vuoti inserendo dei segnaposto tra i suoni che vengono poi percepiti come bit silenziosi?


Uno studio pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” ha trovato un modo per rispondere a queste domande. Un gruppo interdisciplinare di ricercatori della Johns Hopkins University ha messo a punto un esperimento che dimostra che, in effetti, il nostro cervello percepisce attivamente il silenzio nello stesso modo in cui sente il suono.

L’enigma che il gruppo ha affrontato riguarda più in generale la questione del funzionamento della percezione sensoriale – e di ciò che accade in sua assenza – che da tempo impegna filosofi e psicologi. La vista si basa sulla luce che raggiunge i nostri occhi; il tatto riguarda ciò che entra in contatto con il nostro corpo; l’udito ha a che fare con il suono. Tutto ciò sembra ovvio, ma forse non lo è.

“Il silenzio, qualunque cosa sia, non è un suono”, afferma Chaz Firestone, professore assistente di scienze psicologiche e neuroscienze alla Johns Hopkins e coautore del lavoro. “È l’assenza di suono. Eppure spesso ci sembra di sentirlo”. Se il silenzio non è davvero un suono, eppure risulta che possiamo sentirlo, allora l’udito è qualcosa di più della semplice percezione di un suono.”

Per verificare se effettivamente “sentiamo” il silenzio, i ricercatori hanno adattato una serie di illusioni uditive ben note, utilizzate dagli psicologi sperimentali per dimostrare che la mente reagisce al silenzio in modo simile a quello che fa per il suono. Un totale di 1000 persone ha partecipato a sette esperimenti sul silenzio basati su tre illusioni del silenzio.

In una illusione chiamata “uno è di più”, vengono riprodotti due toni separati più brevi, seguiti da un unico tono prolungato. Le persone reagiscono dicendo che il singolo rumore è più lungo dei due distinti insieme, anche se la sua durata complessiva è la stessa. Ciò deriva da un processo percettivo chiamato “segmentazione degli eventi”, in cui la mente elabora i suoni dividendo gli input continui in “eventi” discreti. Questo può portare a illusioni percettive come un singolo segnale acustico che sembra più lungo di due distinti.


Nella versione adattata al silenzio di questo test cognitivo, le persone sono state immerse in un rumore ambientale come quello di un ristorante affollato o di una stazione ferroviaria. Questa “colonna sonora” veniva interrotta da due intermezzi silenziosi, ciascuno dei quali era seguito da una brevissima ripresa del rumore di fondo, che cedeva poi il passo a un intervallo di silenzio continuo.

Si è così prodotta la stessa illusione “uno è di più”, con la stessa intensità della variazione che mette a confronto le durate dei suoni. I partecipanti allo studio hanno affermato che l’unica pausa silenziosa era più lunga delle due punteggiate, compreso il momento della ripresa del rumore.

“Ciò suggerisce che la nostra mente costruisce rappresentazioni uditive simili che potrebbero essere alla base della nostra esperienza del silenzio”, afferma Rui Zhe Goh, dottorando alla Johns Hopkins e primo autore dell’articolo. Goh è il primo dottorando della Johns Hopkins a conseguire un dottorato congiunto in psicologia e filosofia.

Un’altra parte dello studio riguardava la “strana illusione”: le persone erano immerse in un paesaggio sonoro in cui due suoni diversi, come quello acuto prodotto da un organo e un basso rombo di motore, riprodotti contemporaneamente. A un certo punto intervenivano quattro “silenzi” in cui l’organo si fermava e i partecipanti udivano solo il motore. Infine, arrivava un quinto “silenzio strano” in cui il motore si spegneva e l’organo continuava a suonare. Gli ascoltatori hanno erroneamente pensato che l’intervallo strano di solo suono d’organo fosse più lungo.

Per ogni illusione, il cervello dei partecipanti ha risposto alle versioni silenziose nello stesso modo in cui avrebbe risposto alle illusioni sonore: il diverso rumore ha prodotto l’illusione che fosse più lungo. Questo suggerisce che il silenzio non è solo l’assenza di suono, ma qualcosa che percepiamo attivamente come i rumori. Potete provare voi stessi le varie illusioni del silenzio.

Lo studio ha utilizzato gli strumenti della scienza cognitiva per affrontare vecchie questioni filosofiche, con un’integrazione di metodi e idee che Firestone spera di vedere proseguire in futuro.

Lo studio dei silenzi può essere un punto di ingresso per lo studio di altri tipi di assenze, come le ombre o i buchi, afferma Nico Orlandi, filosofo della mente e delle scienze cognitive presso l’Università della California a Santa Cruz, che non era coinvolto nella ricerca.

“Uno dei vantaggi di pensare ai buchi, alle ombre e al silenzio è che sono percettivi, abbiamo il controllo su di essi”, afferma Roy Sorensen, filosofo dell’Università del Texas ad Austin e autore dei libri Seeing Dark Things: The Philosophy of Shadows e Nothing: A Philosophical History. Il silenzio può aiutarci a comprendere le assenze in modo nuovo e a capire come funzionano. “Sono come i moscerini della frutta della metafisica”, spiega Sorensen, che non ha partecipato allo studio.

I tipi di silenzio che questo lavoro mette alla prova sono chiamati relativi o per contrasto, e hanno una certa sovrapposizione con lo studio dei buchi. I filosofi si sono posti domande simili su questi ultimi: possiamo davvero vedere un buco? O si vede solo ciò che sta intorno a un buco? “I buchi richiedono qualcosa che li ospiti”, sottolinea Firestone. “Anche i silenzi richiedono qualcosa che li ospiti. I buchi di una ciambella richiedono una ciambella. I tipi di silenzio che studiamo richiedono un ambiente sonoro per diventare silenziosi.”

Sapere di poter percepire attivamente il silenzio ci aiuta a capire meglio i momenti in cui lo affrontiamo. Per il filosofo e coautore dello studio Ian Phillips, le scoperte dei suoi colleghi lo hanno portato a un nuovo apprezzamento del silenzio, come il suo uso nella musica. Il critico Alex Ross ha scritto che la marcia funebre di Anton Webern “è uno dei fenomeni musicali più rumorosi della storia, ma ancora più rumoroso è il silenzio che ne consegue, che colpisce le orecchie come un tuono.”

“Prima del nostro lavoro, sarebbe stato facile pensare che si trattasse di descrizioni metaforiche piuttosto esagerate”, aggiunge Phillips.

I silenzi non sono solo una finestra sulla natura della realtà fisica, ma approfondiscono la nostra comprensione della nostra cognizione di base. “La capacità di relazionarsi con l’assenza è una caratteristica distintiva di tutte le creature psicologiche”, ha concluso Orlandi. “Gli esseri umani, per esempio, si distinguono per la loro capacità di relazionarsi con cose che non sono immediatamente presenti.”

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