L’eruzione del Pinatubo del 15 giugno 1991: gli effetti dell’eruzione e quelli della (riuscita) comunicazione
di Gianfilippo De Astis e Laura Sandri
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Il 15 giugno del 1991 è ricordato fra i vulcanologi per una delle maggiori eruzioni vulcaniche avvenute sulla Terra negli ultimi 100 anni: l’eruzione del vulcano Pinatubo, nelle Filippine. In effetti, quella data contrassegna la fase più violenta dell’eruzione che stiamo per raccontarvi, le cui avvisaglie erano iniziate perlomeno a partire dal marzo di quell’anno. Ci sembra opportuno segnalare che ancora oggi persistono ipotesi scientifiche secondo le quali già il terremoto del 16 luglio del 1990 (Magnitudo M= 7.8, epicentro a circa 100 chilometri a Nord-Est del vulcano) possa essere stato il vero incipit di questo evento vulcanico.
Lo stratovulcano Pinatubo si trova a circa 90 km da Manila, sull’isola di Luzon, che è parte di un arco vulcanico legato alla subduzione, in un’area di interazione complessa tra varie micro-placche in movimento rispetto alla placca Eurasiatica, fra cui quella del Mar delle Filippine, che subduce (scivola) sotto la prima (Figura 1).
La storia del Pinatubo si ritiene sia caratterizzata da due fasi, con la prima iniziata circa 1,1 milioni di anni fa e la seconda iniziata intorno a 35.000 anni orsono, dopo un periodo di riposo di diverse decine di migliaia di anni.
Per una serie di cause che vedremo nel seguito, tra cui la presenza di una base militare americana vicino al Pinatubo che ha fatto sì che anche l’USGS (il Servizio Geologico degli Stati Uniti) venisse coinvolto nella gestione dell’emergenza, l’eruzione del 1991 è straordinariamente ben documentata. Soprattutto essa è particolarmente famosa per le riuscite operazioni di evacuazione e soccorso di circa 58.000 persone, condotte grazie allo sforzo congiunto del PHIVOLCS (l’Istituto Filippino di Vulcanologia e Sismologia) e del Volcano Disaster Assistance Program dell’USGS. Considerando il XX secolo, quella del Pinatubo del 1991 è considerata la seconda più grande eruzione vulcanica dopo quella del Novarupta (in Alaska) del 1912. Il Pinatubo, però, ha avuto un grande impatto su un’area densamente popolata (cosa che non è possibile invece dire per il vulcano dell’Alaska), dal momento che solo in prossimità del vulcano abitavano circa 30000 persone.
Per energia e volume di magma emesso, l’eruzione del Pinatubo è stata associata a quella del Vesuvio del 79 d.C. Nel 1991 il Pinatubo era in una fase di quiescenza (Figura 2), secondo alcuni scienziati da circa 800 anni, secondo altri da 500 anni, ed anche questo prolungato periodo di riposo lo accomuna alla famosa eruzione del vulcano napoletano.
1991 – Origine dell’attività eruttiva
I numerosi studi eseguiti da vari team di scienziati durante e dopo l’eruzione, hanno condotto alla stesura di un libro (“Fire and Mud: eruption and lahars of Mt Pinatubo, Philippines”) curato dai due ricercatori che furono all’epoca i maggiori responsabili del monitoraggio del Pinatubo: Christopher Newhall e Raymundo Punongbayan. Il libro rappresenta un documento minuzioso sul risveglio di un vulcano dopo una lunga quiescenza e, con i suoi 62 articoli “tecnici”, scritti dai vari studiosi coinvolti nell’emergenza, racconta non solo la storia scientifica dell’eruzione ma anche quella umana, inclusi i numerosi eventi che l’accompagnarono.
Quale fu quindi il meccanismo di riattivazione del Pinatubo? La risposta è nel testo edito dai due scienziati, insieme a elementi utili a identificare, più in generale, un tipo di processo che spesso si verifica in un vulcano quiescente, spingendolo a tornare in eruzione. Gli studi sulle rocce emesse nel corso dell’eruzione, infatti, fornirono l’evidenza che la riattivazione del Pinatubo fu causata dall’arrivo di nuovo magma basaltico all’interno di una camera magmatica che si trovava ad una profondità fra i 7 e 12 km contenente un magma viscoso ricco in silice (dacite). Il mescolamento di questi due magmi produsse un nuovo magma ibrido più caldo e più ricco in gas del preesistente, capace di risalire verso la superficie, dove inizialmente formò un duomo sommitale. Le esplosioni successive alla formazione del duomo e la conseguente decompressione della camera magmatica innescarono la risalita di ulteriori volumi di magma, fino a giungere alla fase parossistica. Naturalmente, questo lo possiamo scrivere a distanza di molti anni e di molte ricerche, ma gli inizi dell’eruzione ed il suo corso furono tutt’altra cosa in termini scientifici, logistici, comunicativi ed emotivi. A questo proposito, consigliamo un interessante video riassuntivo e narrativo.
I fenomeni precursori
A partire dal 15 marzo del 1991, i residenti dei villaggi alle falde del vulcano cominciarono ad avvertire alcuni terremoti, senza peraltro notare variazioni nelle emissioni gassose delle fumarole di un’area geotermica sul versante nord-ovest del vulcano. Né furono segnalati crolli o frane sui versanti del vulcano. Il numero e l’intensità dei terremoti crebbero il 2 aprile, in particolare quando avvenne un’esplosione freatica, nel pomeriggio, proprio lungo quel versante. Il 3 aprile, la missionaria Emma Fondevilla, che abitava in un villaggio di Aeta (una delle popolazioni locali), riferì ai ricercatori del PHIVOLCS la notizia di questo evento. Un volo di verifica sul vulcano confermò che le esplosioni avevano generato un allineamento di punti di emissione di gas sul lato N-NO dell’apparato vulcanico (Figura 3).
A questo punto, venne costituito un team di studio e osservazione che attribuì questi fenomeni ad un’attività puramente idrotermale. Il 5 aprile fu installata la prima stazione sismica mobile, con segnali registrati su rullo cartaceo, da sostituire ogni 24h, a circa 7 km in direzione O-NO rispetto alla cima del vulcano. Furono in poco tempo registrati centinaia di terremoti, la cui analisi preliminare rivelava una natura di tipo vulcano-tettonico (VT). Si trattava infatti di terremoti che, pur avvenuti in un’area vulcanica, hanno caratteristiche del tutto simili a quelli che si verificano in aree non vulcaniche e tettonicamente attive del Pianeta e che sono interpretati come conseguenza della fratturazione di masse rocciose. Restò tuttavia l’incertezza di stabilire se la sismicità nel suo insieme fosse di origine sostanzialmente idrotermale, legata cioè alla rapida espansione dei fluidi nel sottosuolo, o dovuta al movimento di magma in risalita, e se fosse anticipatrice di un’eruzione vulcanica vera e propria. Nel dubbio, PHIVOLCS raccomandò l‘evacuazione precauzionale dei villaggi entro 10 km dalla cima del Pinatubo. Pertanto, le autorità civili, con l’aiuto di diverse organizzazioni non governative, istituirono campi di accoglienza che si riempirono rapidamente.
Nei giorni successivi furono installate altre 4 stazioni sismiche per consentire la localizzazione dei terremoti; le stazioni tuttavia furono collocate soprattutto sul fianco Ovest del vulcano, più facilmente raggiungibile, e quindi non permisero una localizzazione delle sorgenti sismiche con un’alta precisione. Per di più, i dati dovevano essere recuperati giorno per giorno ed inviati a Manila per la loro analisi. Durante questi primi giorni, fu anche deciso di redigere dei bollettini giornalieri con informazioni sull’attività sismica e sulle osservazioni visive raccolte nelle precedenti 24 ore. Ogni bollettino conteneva anche un giudizio sullo stato generale del vulcano e prima di essere diffuso subiva revisioni e vari passaggi di verifica con le autorità. Il termine ricorrente scelto per descrivere le condizioni del vulcano fu “instabile”.
I geologi del PHIVOLCS e quelli dell’USGS (insieme ad altri studiosi come. H. Ferrer e F.G. Delfin Jr., della Philippine National Oil Company e M. Defant della University of South Florida) iniziarono anche a raccogliere i dati su quel poco che si sapeva sulla recente storia eruttiva del vulcano e sui… L’ARTICOLO CONTINUA QUI