Anatomia del terremoto in Turchia
di Alessandro Amato (INGV)
Quali faglie si sono attivate nel sisma e negli aftershock che ne sono seguiti. E perché ancora una volta, con decine di migliaia di vittime tra le macerie in Turchia e Siria, è necessario non dimenticare come è possibile intervenire per ridurre il rischio sismico, anche in Italia
di Alessandro Amato
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Notte tra il 5 e il 6 febbraio 2023, nel sud della Turchia dormono tutti.
Alle 4:17 e 35 secondi un punto preciso del sottosuolo si muove, 18 chilometri sotto la superficie terrestre. Non è un punto qualunque, è l’ultima propaggine della placca arabica, separato dal suo analogo turco dalla Faglia Est Anatolica (EAF), una delle spaccature più temibili della Terra. La EAF corre per centinaia di chilometri poco a nord del confine turco-siriano ed è quiescente da più di un secolo. Il punto si sposta di qualche centimetro verso nord-est rispetto al suo analogo sulla placca anatolica, poi di un metro, forse due. Da quel punto la frattura inizia a propagarsi lungo la faglia, inizialmente in maniera non particolarmente violenta: per 15 secondi la rottura si estende piuttosto lentamente verso nord-est, poi salta su un’altra faglia e accelera, dislocando un segmento della faglia lungo oltre 100 chilometri, fermandosi a poca distanza da Malatya.
Intanto, con un po’ di ritardo, aveva iniziato a propagarsi anche nella direzione opposta, verso sud-ovest: rottura bilaterale. Dopo un minuto piega a sud, seguendo il limite delle due placche, quella arabica e quella anatolica. Sposta anche quel segmento, anche se solo di 50-70 centimetri, quanto basta però per aggiungere scuotimento, paura e danni, nel settore già scosso di Antakya e Iskenderun, nell’estremo sud della Turchia, non lontano dal mar Mediterraneo.
Il risultato è un terremoto di magnitudo 7.8. L’energia rilasciata durante la rottura della faglia è enorme, pari a 500 terremoti di Amatrice in un colpo solo. Come si osserva sempre in questi casi, il movimento relativo dei due lembi della faglia è molto variabile, con zone che quasi restano ferme e altre dove si concentra lo spostamento raggiungendo i 5-6 metri. Il motivo di questa forte eterogeneità è probabilmente legato al fatto che la faglia non è una singola superficie continua e planare, come nelle illustrazioni schematiche sui libri di scuola, ma va vista come una zona più ampia di deformazione che ha al suo interno delle pieghe, delle interruzioni e dei salti. Le accelerazioni del suolo sono molto forti e la durata dello scuotimento è molto lunga.
In quei 100 secondi, migliaia di edifici si sono sbriciolati, portandosi dietro un numero impressionante di vite. Negli stessi 100 secondi, decine di migliaia di edifici sono rimasti in piedi, qualcuno anche intatto. Per non parlare dell’immane numero di vittime: al 22 febbraio si contano in un bilancio provvisorio oltre 42.000 morti in in Turchia e oltre 4000 in Siria.
Nelle ore successive al terremoto delle 4:17, centinaia di repliche di magnitudo inferiore hanno delineato per 300 chilometri l’estensione della faglia, ostacolando le prime operazioni di soccorso e i tentativi di liberare quanti erano rimasti intrappolati sotto le macerie.
Nove ore dopo, alle 13:54 del 6 febbraio, si attiva un altro segmento di faglia, di un’altra faglia situata circa 90 chilometri a nord della EAF, orientata questa volta in direzione est-ovest. Questa faglia si muove per un centinaio di chilometri, con un’area centrale che si sposta fino a 8-10 metri in una ventina di secondi, anche in questo caso con movimento sinistro (il blocco dell’Anatolia a nord si è spostato di molti metri verso ovest).
In seguito, tutta l’area è stata colpita da centinaia di aftershock, come avviene sempre dopo un forte terremoto per una sorta di “riaggiustamento” della zona dove è avvenuta la rottura principale. Già dopo poche ore questi delineavano perfettamente il sistema delle due faglie, formando in pianta un “sette” di 150 per 300 chilometri, ribattuto nei giorni successivi da migliaia di altri aftershock. Nelle prime due giornate di attività, la sismicità si era estesa oltre i bordi delle faglie del 6 febbraio, facendo temere una migrazione verso altri segmenti di faglia come il sistema di faglie del Mar Morto, a sud, noto per i numerosi forti terremoti avvenuti nei secoli scorsi. In effetti, la sera del 20 febbraio un forte aftershock di magnitudo 6.4 ha colpito il settore più meridionale della faglia, estendendo ancora l’area di danneggiamento e facendo temere ulteriori forti scosse.
L’epicentro di quest’ultimo terremoto si localizza in prossimità di un cosiddetto “punto triplo”, un punto dove si toccano tre placche: quella anatolica a nord, l’arabica a sud-est e la placca africana a sud-ovest. Il movimento della placca arabica verso nord, che avviene a una velocità di circa 1,5-2,0 centimetri all’anno, provoca la spinta e la “estrusione” della placca anatolica verso il Mar Egeo, a ovest.
Lo spostamento dell’Anatolia verso ovest avviene attraverso il suo scorrimento lungo due binari principali: a nord la faglia Nord-anatolica (NAF), che corre in direzione est-ovest lungo il bordo meridionale del Mar Nero, e a sud la faglia Est-anatolica (EAF).
La NAF è stata teatro di una serie di forti terremoti tra il 1939 e il 1999, con 12 terremoti di magnitudo compresa tra 6.7 e 7.8 che si sono sviluppati con una impressionante progressione da est verso ovest, fino a interessare l’area di Istanbul. Il primo, di magnitudo 7.8, è avvenuto nel 1939 presso Erzincan e ha avuto un pesantissimo bilancio: oltre 32.000 morti. Altri eventi si sono susseguiti nei decenni successivi, fino all’ultimo in ordine di tempo, il sisma di Izmit del 1999, di magnitudo 7.6, che ha prodotto centinaia di vittime e danni rilevanti in un ampio settore della Turchia nord-occidentale, interessando anche Istanbul.
Da allora, la città del Bosforo, con i suoi 16 milioni di abitanti, è considerata una delle città a più alto rischio sismico del pianeta. C’è una quasi totale unanimità nella comunità scientifica nel sostenere che la probabilità che si attivi il segmento di faglia proprio di fronte alla città sia molto alta.
Contrariamente alla NAF, la EAF è rimasta quasi quiescente nel XX secolo, con pochissimi grandi terremoti. Questo limita la nostra capacità di comprenderne in dettaglio i movimenti, le caratteristiche crostali e il comportamento dei vari segmenti di faglia. Bisogna tornare al secolo precedente e a quelli ancora prima per trovare eventi di magnitudo 7 o superiore. Questa quiescenza si manifesta nonostante il movimento continuo delle placche (dell’ordine di 2 centimetri all’anno come accennato sopra), con conseguente aumento del potenziale sismico della EAF e delle faglie limitrofe. Per questo motivo la EAF era stata indicata come un “gapsismico”, intendendo con questo termine una zona dove si sta accumulando da molto tempo l’energia sismica e che è quindi pronta a rilasciarla con qualche forte terremoto.
L’ultimo evento rilevante sulla EAF è avvenuto il 24 gennaio 2020 a nord-est dell’attività di questi giorni. La sua magnitudo (6.7) indica che soltanto un segmento della EAF ha rilasciato parte dell’energia accumulata, e soltanto in un settore limitato a poche decine di chilometri. Andando indietro nel tempo e analizzando l’ampia letteratura scientifica sulle faglie attive e sui precedenti storici, non sembra ci sia traccia di un evento forte come quello del 6 febbraio 2023.
La “segmentazione” della EAF lasciava pensare a terremoti di magnitudo non superiore a 7-7.4 (in termini di energia un terremoto di magnitudo 7.8 vale quattro eventi di magnitudo 7.4 e 16 di magnitudo 7.0).
Purtroppo, durante il terremoto del 6 febbraio si sono attivati quasi contemporaneamente diversi “segmenti di faglia”, ciascuno capace di generare individualmente eventi di magnitudo inferiore. Un fenomeno analogo è stato osservato durante il terremoto di Kaikoura in Nuova Zelanda del 2016 (magnitudo 7.8), per il quale si è stimata l’attivazione di oltre 20 faglie. In quel caso, però, le vittime furono soltanto due, grazie alla scarsissima densità abitativa.
Al contrario, nel caso della Turchia e della Siria – come pure per l’Italia e per molti altri paesi del mondo – il rischio sismico rispetto a 100 anni fa è aumentato notevolmente, perché sono aumentati gli insediamenti, e perché questi insediamenti si sono spesso sviluppati in assenza di normativa sismica o in suo spregio.
Va ricordato che il rischio sismico è il prodotto di tre fattori: la pericolosità (ossia la probabilità di avere un certo scuotimento in un determinato intervallo temporale), il valore esposto (edifici, infrastrutture, opere d’arte, persone) e la vulnerabilità. Il primo elemento non può essere ridotto, il secondo molto poco, con tempi lunghi e interventi strutturali importanti, ma solitamente aumenta per l’aumentare dell’urbanizzazione). La vulnerabilità è l’unico elemento che può essere ridotto sensibilmente, agendo sulle costruzioni esistenti considerate poco sicure.
In Turchia nel 2012 era stata varata una importante legge (di “rigenerazione urbana”) che avrebbe dovuto ridurre il rischio sismico con importanti interventi di adeguamenti e soprattutto di demolizioni e ricostruzioni. Il focus era principalmente Istanbul, considerato l’altissimo rischio, e probabilmente poco è stato fatto nell’estremità meridionale del paese. Il programma, ventennale, è tuttora in corso e ha probabilmente avuto scarsa applicazione nelle altre città della Turchia.
Inoltre, si è molto criticata in questi giorni la serie di condoni edilizi concessi in Turchia negli ultimi anni, in particolare quello del 2018, varato poco prima del voto che confermò Recep Tayyip Erdogan alla presidenza del paese. I risultati di queste operazioni sono, insieme agli importanti introiti economici per lo Stato, l’aumento della vulnerabilità e la diminuzione di una cultura della prevenzione e della legalità. Tutti elementi che contribuiscono ad aumentare enormemente il rischio.
Va anche detto, però, che nelle immagini e nei filmati delle città colpite dal terremoto del 6 febbraio, si nota una costante: a fianco ai palazzi crollati, sbriciolati, ci sono sempre edifici che hanno resistito, apparentemente intatti. È probabile che molti di questi siano stati danneggiati seriamente e andranno forse abbattuti, ma almeno non hanno fatto altre vittime quella notte.
Questo è un segnale vitale, con alcune importanti implicazioni: le cause dei crolli vanno ricercate nelle modalità di costruzione dei singoli edifici, a livello progettuale o di cantiere, di scelta dei materiali e così via; si possono costruire edifici resistenti anche a terremoti di questa entità; c’è quindi una speranza di ridurre il rischio sismico; è necessario un impegno pluridecennale in molti paesi sismici e vulnerabili, compresa l’Italia, per la riduzione del rischio (ci sono esempi virtuosi da seguire); questo implica un grande lavoro sull’edilizia esistente (oltre a una costante attenzione verso quella nuova per evitare che qualche “scorciatoia” possa vanificare gli sforzi); dobbiamo sbrigarci, i terremoti come si è visto anche in questo caso, possono colpire in qualsiasi momento e con grande violenza.
Un compendio di quanto detto sopra può essere trovato nelle parole di Ökkeş Elmasoğlu, sindaco del distretto Erzin della città di Hatay, l’unico che non ha avuto perdite di vite umane: “Non ho permesso una sola costruzione illegale. Tutti erano arrabbiati con me, la mia coscienza è a posto in questo momento”.
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L’autore
Alessandro Amato è geologo, dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV) e responsabile del Centro allerta tsunami dell’INGV.