La catastrofe vulcanica del Nevado del Ruiz, Colombia, 13 novembre 1985
di Lucia Pappalardo
ingvambiente
Il 13 novembre del 1985 il vulcano colombiano Nevado del Ruiz, entra in eruzione dopo quasi 70 anni di riposo, generando quello che è noto come il più devastante lahar (parola di origine indonesiana che indica flussi di fango e detriti di origine vulcanica) della storia e annientando le città di Chinchinà e di Armero. Il bilancio delle vittime (23.000) è al quarto posto nella storia delle catastrofi vulcaniche, dopo quelle dei vulcani Tambora nel 1815 (92.000) e Krakatau nel 1883 (36.000), entrambi in Indonesia, e della Montagne Pelée, in Martinica, nel 1902 (28.000).
Il Nevado del Ruiz è parte dell’“Anello di Fuoco”, una regione che circonda per circa 40 mila chilometri l’Oceano Pacifico, dove è concentrata la maggior parte dell’attività sismica e vulcanica del mondo; in particolare il Ruiz è parte di una catena di vulcani allineata da nord a sud lungo la Cordigliera andina.
L’eruzione del 1985 non fu improvvisa ma anticipata da attività sismica persistente, attività fumarolica e freatica sin dal novembre dell’anno precedente. In seguito all’intensificarsi di questi fenomeni, un team di esperti colombiani e internazionali (provenienti dagli USA, Svizzera, Ecuador, Francia, Italia, Nuova Zelanda e Costa Rica) installarono nuovi sismografi durante la tarda primavera e l’estate del 1985. I dati misurati confermarono elevati livelli di attività sismica che furono considerati possibili precursori di una eruzione vulcanica imminente; in effetti, un rapido aumento dell’attività sismica all’inizio di settembre culminò, alcuni mesi prima dell’eruzione, in un’ esplosione freatica (11 settembre) con emissione di vapore acqueo e cenere, dovuta alla repentina vaporizzazione di acqua sotterranea surriscaldata dal magma in risalita.
Nello stesso periodo l’“Instituto Nacional de Investigaciones Geológico-Mineras” (INGEOMINAS) della Colombia definì le mappe di pericolosità dell’area, evidenziando chiaramente la minaccia dei lahar per la città di Armero e i villaggi circostanti (Figura 2). Tuttavia la mappa, pubblicata il 7 ottobre in forma preliminare, non fu diffusa tra la popolazione poiché considerata allarmistica dalle autorità locali. Durante un’intervista il sindaco di Armero dichiarò che molte persone “non sanno se rimanere o andar via” e che il comitato regionale di emergenza “non ha sufficienti informazioni né risorse finanziarie per intervenire in caso di catastrofe. Per questo motivo, la popolazione non ha fiducia nella veridicità delle informazioni e affida a Dio la propria sorte”.
In particolare i rilievi geologici condotti dall’INGEOMINAS avevano indicato che la città di Armero e i villaggi circostanti erano sviluppati proprio su antichi depositi di lahar originati da precedenti eruzioni esplosive, avvenute nel 1595 e nel 1845, che avevano dunque già distrutto questi territori, a quel tempo tuttavia molto meno popolati. Il geologo Bruno Martinelli che tramite il servizio geologico svizzero era in Colombia per monitorare il vulcano scriveva: “il pericolo di lahar non era solo evidente anche ai non esperti, ma dopo l’esplosione dell’11 settembre non c’era nessun dubbio, che delle misure dovevano essere prese per far fronte a questo pericolo”.
Nonostante tutte queste evidenze e il coinvolgimento della comunità scientifica internazionale, il sistema di gestione dell’emergenza non riuscì ad evitare la catastrofe. Cosa dunque non funzionò quel 13 novembre di 37 anni fa?
Ripercorriamo gli eventi che portarono a quella che è nota come “la tragedia di Armero”.
Il 13 novembre alle ore 15:05 (ora locale), l’eruzione viene anticipata da un’esplosione freatica simile a quella avvenuta l’11 settembre; la cenere trasportata dal vento cade nei paesi intorno al vulcano fino ad Armero a 48 km di distanza a E-NE del vulcano.
Nell’arco di un’ora, il direttore della protezione civile locale e il direttore dell’INGEOMINAS allertano la protezione civile regionale che pianifica l’evacuazione. Tra le 17:00 e le 19:00 la caduta di cenere si arresta e alcuni superstiti raccontano che dalle radio locali arrivano messaggi rassicuranti, tra cui anche quelli di un sacerdote di Armero che si rivolge alla popolazione attraverso gli altoparlanti della chiesa, consigliando di rimanere a casa e usare un fazzoletto per coprire naso e bocca in caso di pioggia di cenere. Nel frattempo, il Comitato regionale di emergenza si riunisce e al termine della riunione, verso le 19:00, decide di allertare le autorità locali e le stazioni di polizia di Armero e delle città circostanti, che avrebbero dovuto gestire l’evacuazione. Ma a questo punto non è chiaro se l’ordine di evacuazione sia stato effettivamente impartito alla popolazione di queste città, probabilmente in parte per lo scetticismo delle autorità locali e in parte a causa di un forte temporale che causa interruzioni elettriche intermittenti per tutta la serata. La forte pioggia e i tuoni inoltre potrebbero aver sopraffatto il rumore generato dal vulcano, che oltretutto non era visibile da Armero, lasciando gli abitanti completamente ignari dell’attività in corso. Durante la serata, le forti piogge e una partita di calcio internazionale spingono la maggior parte degli armeriani a rimanere in casa.
Alle 21:08, ha inizio nella parte sommitale del vulcano l’eruzione magmatica esplosiva. L’eruzione è relativamente di piccola magnitudo (Indice di Esplosività Vulcanica 3) e genera flussi di materiale piroclastico caldo che, scorrendo lungo i fianchi del vulcano, sciolgono parte della neve ed anche della calotta di ghiaccio presente sulla vetta. Tale processo origina torrenti di acqua mista a materiale piroclastico, che confluendo nelle valli prendono in carico fango e detriti formando i cosiddetti lahar. Dalle 21:45 alle 22:00, i funzionari della protezione civile regionale cercano invano di mettersi in contatto via radio con Armero per sollecitare l’evacuazione. Verso le 22.45 una di queste colate di fango si incanala nella valle del fiume Cauca, sommergendo il villaggio di Chinchinà a 25 km di distanza a ovest del vulcano, qui tuttavia la maggior parte degli abitanti sono allertati dalla protezione civile, sebbene 1927 persone rimangono uccise e più di 200 case distrutte.
Alle 23:35 un’onda di fango alta quasi 40 metri ad una velocità di 50 km/h, incanalatasi nel canyon di Lagunillas, seppellisce per sempre la città di Armero e 21.000 dei suoi abitanti. Un secondo lahar arriva alle 23:50, seguito da una serie di impulsi più piccoli, l’ultimo all’01:00. Secondo le testimonianze di alcuni sopravvissuti l’elettricità va via poco prima dell’arrivo del lahar. Subito dopo si avverte il fragore della colata di detriti che in pochi attimi rade al suolo la città, inclusi gli edifici di cemento armato, poiché in grado trasportare anche enormi blocchi, che come grosse ruspe, demoliscono qualsiasi costruzione o infrastruttura.
I racconti dei pochi sopravvissuti sono impressionanti e testimoniano lo scetticismo delle autorità locali che impedì di prendere decisioni risolutive che avrebbero potuto e dovuto invece evitare la catastrofe: “Ascoltavamo la radio, ma in nessun momento ci è stato detto di lasciare la città. Dicevano semplicemente di mantenere la calma… forse era la voce del sindaco ma non ne sono certa”. Secondo una testimonianza il Sindaco di Armero, poco prima di essere travolto dal lahar, stava discutendo tramite la sua radio amatoriale della situazione con un membro della Protezione civile che si trovava a Ibagué, a circa 70 km di distanza. Questi ricorda che il Sindaco “non pensava che ci fosse molto pericolo”, “diceva che sperava che tutto finisse e che preferiva rimanere con la sua famiglia nella loro casa di Armero”. Le sue ultime parole rivelano la sua sorpresa: “Aspetta un minuto. Penso che la città si stia allagando“!
Dalla ricostruzione degli eventi emerge che il primo lahar invade la città più di due ore dopo l’inizio dell’eruzione, un tempo che sarebbe stato sufficiente a lanciare l’allarme e dare la possibilità alla popolazione di raggiungere anche a piedi un’altura salvando così la propria vita. Alcuni tra i sopravvissuti hanno riferito di aver ricevuto avvertimenti non ufficiali per telefono solo da parenti e amici. Questi allarmi molto probabilmente provenivano da Líbano, che si trovava a circa 15 km a monte di Armero, abbastanza vicino al fiume dove la colata di fango era chiaramente udita, anche se non vista a causa dell’oscurità. Le famiglie così allertate, che agirono rapidamente, ebbero il tempo di scappare. Altri tra i sopravvissuti riferiscono che stavano dormendo verso le 23:00 e di essersi allarmati solo dopo aver sentito persone correre e gridare per le strade dopo che la prima delle ondate di fango aveva raggiunto la comunità. Chi si trovava più vicino alle zone più alte della città ed ebbe la prontezza di dirigersi in quella direzione, riuscì a mettersi in salvo anche fuggendo a piedi, per tutti gli altri 21.000 non ci fu via di scampo dalla morte nel fango.
I soccorsi
Anche i soccorsi furono difficilissimi, perché il fango che aveva sepolto la città era simile alle sabbie mobili rendendo difficilissimo il lavoro di recupero dei sopravvissuti, che nel frattempo morivano per le ferite e il freddo; solo 65 tra i circa 1000-2000 rimasti intrappolati nel fango furono salvati. Fra tutte rimase tristemente famosa la storia di una bambina di tredici anni, Omayra Sánchez, e in particolare… L’ARTICOLO CONTINUA QUI