Il profumo nella storia: le ricerche sugli odori della tomba egizia di Kha e Merit

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Il profumo nella storia: le ricerche sugli odori della tomba egizia di Kha e Merit

Applicando una metodica innovativa, usata finora in ambito biomedico e ambientale, è stato possibile ricavare dati interessanti dai composti volatili contenuti nei reperti risalenti a oltre 3000 anni fa di un’importante collezione del Museo egizio di Torino
di Anna Rita Longo
www.lescienze.it

La storia viene a trovarci anche attraverso i suoi odori, che nascosti per millenni ora possono nuovamente offrire importanti informazioni grazie ai progressi della tecnologia. È ormai un dato di fatto che la ricerca archeologica proceda sempre più a braccetto con la scienza e le ricerche più recenti ne offrono continuamente degli esempi. Tra quelli più interessanti, è possibile citare uno studio condotto dal Dipartimento di chimica e chimica industriale dell’Università di Pisa, in collaborazione con il Museo egizio di Torino, sulla cui ricchissima collezione sono stati applicati nuovi metodi di analisi dei composti volatili, con il sostegno della Regione Toscana e dell’azienda produttrice dello strumento usato.

La tomba di Kha e Merit
Al centro dello studio vi è un giustamente celebre corredo funerario, che fa parte dei tesori conservati all’interno del Museo egizio, ovvero quello proveniente dalla tomba di Kha e Merit. La tomba, che risale a circa 3500 anni fa, fu scoperta nel 1906 nel villaggio di Deir el-Medina, nella necropoli di Tebe, dall’archeologo Ernesto Schiaparelli, allora direttore del museo torinese, e preservava i resti di Kha, architetto dei faraoni della XVIII dinastia, e di sua moglie Merit. Il prestigio sociale dei defunti è evidente dall’opulenza del corredo con cui sono stati sepolti, ma rappresenta anche una fonte importantissima di ricostruzione storica, per le tante informazioni che la ricerca scientifica può oggi consentire di ricavare.

“Tutto questo è stato, però, reso possibile dalla grande lungimiranza di Ernesto Schiaparelli, che ha preso la decisione, ai suoi tempi inusuale e molto coraggiosa, di mantenere intatto il corredo dei reperti, senza procedere, per esempio, all’apertura dei molti vasi presenti, che abbiamo studiato, e limitandosi a indagare pochi oggetti non unici. Aveva, infatti, avuto l’intuizione, poi rivelatasi corretta, che in futuro sarebbero stati sviluppati metodi di indagine non distruttivi, che avrebbero permesso di ricavare importanti informazioni senza danneggiare i reperti e consegnandoli intatti agli archeologi delle generazioni successive”, dice Ilaria Degano, professoressa associata di chimica analitica all’Università di Pisa, membro del gruppo di ricerca che ha condotto lo studio.

Analizzare gli odori
La generosità di Schiaparelli ha, quindi, permesso di condurre oggi indagini non distruttive su 50 vasi conservati nel Museo egizio. Continua Degano: “Si tratta, in breve, di un’analisi dei composti volatili, potremmo chiamarli ‘odori’, che è ancora possibile rintracciare nei reperti organici presenti nei vasi, con modalità decisamente innovative. La scommessa del gruppo di ricerca è stata quella di poterne ricavare informazioni utili alla ricostruzione storica e archeologica”.

I dubbi iniziali erano certamente molti: si sarebbe lavorato su oggetti molto antichi e naturalmente era ipotizzabile che la quantità di composti volatili in essi presente potesse essersi esaurita dopo più di 3000 anni. Si era deciso, inoltre, di adoperare, come tecnica per l’analisi dei composti, la spettrometria di massa SIFT-MS (Selected-Ion Flow-Tube Mass Spectrometry), attraverso l’uso di uno spettrometro trasportabile (quindi utilizzabile direttamente sul posto, nelle sale del museo), che però non era mai stato adoperato nel contesto della ricerca archeologica.

Reperti della tomba di Kha e Merit, avvolti nelle buste di nalophan e lasciati per una settimana ancora nelle teche del museo a disposizione dei visitatori (© Museo egizio di Torino)

Si tratta, infatti, di uno strumento pensato soprattutto per condurre indagini diagnostiche in campo biomedico, oppure per intraprendere studi di chimica ambientale. “L’idea di adoperarlo per studiare reperti archeologici è, quindi, una novità”, sottolinea Degano. “È stata, quindi, necessaria una prima fase di test che potesse rassicurarci sull’affidabilità del metodo, condotta su materiali di riferimento e su reperti archeologici di cui era già nota la datazione attraverso altre tecniche. I risultati delle prove preliminari ci hanno rassicurato sulle potenzialità della tecnica e convinto a procedere.”

A quel punto bisognava, però, disporre di una quantità sufficiente dei singoli composti da analizzare. Come avviene quando si disperde un profumo in un ambiente vasto o aperto, rendendolo difficilmente identificabile, così può accadere per i composti volatili presenti in un reperto, con l’aggravante della dispersione dovuta all’antichità del manufatto.

Racconta la ricercatrice: “Abbiamo pensato di inserire i reperti in sacchetti sigillati inerti e trasparenti per circa una settimana prima di procedere alle analisi. Questo avrebbe permesso ai visitatori del museo di continuare a vedere i reperti (anche se, naturalmente, non bene come prima) e di fare in modo che la quantità dei composti volatili che fuoriusciva dal materiale organico contenuto divenisse più concentrata e, quindi, facile da rilevare con le analisi”. La campagna di raccolta dei dati è stata molto rapida (sono stati sufficienti due soli giorni per tutti i campioni), ma l’interpretazione di questi dati ha richiesto, invece, molti mesi, trascorsi anche nell’attento esame della letteratura scientifica relativa alle diverse classi di composti rilevati.

I risultati
Al termine dello studio, è stato possibile ricavare alcuni indizi utili per conoscere il contenuto dei recipienti. “Alcuni composti individuati sono molto comuni nel materiale organico invecchiato – sottolinea Degano –, ma altri hanno permesso di ottenere informazioni interessanti. Per esempio, si è potuto raggiungere un elevato livello di dettaglio, distinguendo tra resti di pesce essiccato e di uccellini, che possono confermare notizie relative alle abitudini alimentari e agli usi funerari. Sono stati, inoltre, individuati resti vegetali relativi a frutti e in molti contenitori sono state ritrovate sostanze che si possono far risalire alla cera d’api, in particolare aldeidi e idrocarburi a catena lunga. Altre sostanze oleose diverse potrebbero essere ricondotte a profumi ormai perduti.” In alcuni casi le informazioni archeologiche sono particolarmente interessanti: “Abbiamo infatti individuato i resti di quelle che possono sembrare resine naturali con proprietà antibatteriche adoperate nell’imbalsamazione”, sottolinea Degano.

In due anfore sono poi stati trovati composti solforati, che potrebbero essere ricondotti a resti di macerazione o fermentazione di cereali. “A tal proposito – aggiunge Degano – è possibile pensare semplicemente a un naturale processo di fermentazione dovuto all’invecchiamento della materia organica, ma anche a orzo fermentato per produrre birra, che sappiamo essere una bevanda in uso da parte di molte civiltà antiche, compresa quella egizia.”

Analisi dei composti volatili dei reperti della tomba di Kha e Merit, avvolti nelle buste di nalophan che hanno consentito di aumentare la concentrazione delle sostanze (© Museo egizio di Torino)

In molti casi si è anche visto che le etichette presenti su determinati contenitori “mentivano” sul contenuto: “Si tratta di un fenomeno noto e testimoniato dagli scavi archeologici: era, infatti, comune il riutilizzo dei recipienti, soprattutto quelli più grandi”, sottolinea la studiosa.

Le prospettive future
Lo studio ha contribuito a confermare come l’analisi degli odori possa essere tenuta in considerazione nella ricerca archeologica, anche se si tratta di un campo ancora difficile da indagare e, di conseguenza, molto trascurato. L’uso della SIFT-MS si è comunque dimostrato molto promettente per la sua precisione e attendibilità e promette di essere esteso ad altri contesti simili. Aggiunge, infatti, Degano: “La collaborazione con il Museo egizio di Torino continuerà, con ulteriori analisi sui reperti conservati, ma abbiamo anche ricevuto proposte relative ad altre collezioni di reperti conservate in altri musei.

Ma la stessa tecnica di analisi si presta anche ad applicazioni diverse, per esempio al restauro: “Pensiamo, per esempio, alle sostanze adoperate per la pulitura e il reintegro pittorico dei dipinti e di altre opere d’arte, che possono rilasciare composti volatili nell’ambiente. Analizzarli può consentire di ottenere informazioni sullo stato di conservazione dei beni, ma anche sulla sicurezza delle operazioni di restauro per chi le realizza e per i visitatori di musei e luoghi di interesse culturale, offrendo informazioni sulla qualità dell’aria”, conclude la ricercatrice. La tecnologia si conferma, quindi, un ottimo alleato della cultura.

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