Quando i grandi asteroidi cadevano molto spesso
Un team di ricercatori guidato dall’italiano Simone Marchi, oggi negli Usa, ha scoperto che gli attuali modelli di collisioni planetaria esistenti sottovalutano la frequenza con la quale asteroidi e comete di grandi dimensioni colpivano la Terra primordiale: il nuovo calcolo porta a valori dieci volte più elevati del previsto, tali da ritardare di oltre un miliardo di anni l’accumulo di ossigeno in atmosfera
di Marco Malaspina
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Oggi, per la Terra, l’eventualità di un impatto devastante con un asteroide, pur essendo presa attentamente in considerazione dagli scienziati – per esempio, è online da poche ore un nuovo sito dell’Inaf dedicato anche a questo tipo di eventi – non figura fra le minacce planetarie a breve termine: i grandi oggetti destinati a passare, nei prossimi decenni, vicino al nostro pianeta li conosciamo tutti, e i calcoli ci dicono che il rischio di collisione è estremamente basso. Ma non è sempre stato così. Ci fu un tempo nel quale, sul nostro pianeta, piovevano asteroidi di grandi dimensioni come se non ci fosse un domani: parliamo dell’Archeano, tra 4 miliardi e 2.5 miliardi di anni fa, quando il bombardamento da parte di corpi dai 10 km di diametro in su era talmente frequente da arrivare ad alterare la chimica dell’atmosfera primordiale della Terra. Ma quanti ne cadevano, di questi enormi asteroidi? Una risposta aggiornata arriva da uno studio pubblicato oggi sulle pagine di Nature Geoscience da un team guidato dall’astrofisico del Southwest Research Institute di Boulder (in Colorado, Usa) Simone Marchi – originario di Lucca, membro della missione Lucy della Nasa ed esperto di mondi in collisione, come s’intitola il suo ultimo libro.
Per mettere a punto modelli affidabili sulla frequenza e sugli effetti delle grandi collisioni primordiali, Marchi e colleghi hanno analizzato quel che resta di antichi asteroidi, dimostrando che gli impatti hanno avuto luogo più spesso di quanto si pensasse in precedenza, e che potrebbero aver ritardato l’inizio dell’incremento di concentrazione dell’ossigeno nell’atmosfera del pianeta. Risultati, questi, che contribuiscono a una comprensione più precisa dell’epoca in cui il nostro pianeta ha iniziato il percorso che l’ha portato a diventare la Terra che conosciamo oggi.
«L’ossigeno libero presente in atmosfera è fondamentale per qualsiasi essere vivente che usi la respirazione per produrre energia», osserva la seconda autrice dello studio, da Nadja Drabon della Harvard University. «Senza accumulo di ossigeno in atmosfera probabilmente non esisteremmo».
Rispetto ai modelli precedenti di collisioni planetarie, i nuovi risultati indicano che i grandi impatti avvenivano in media ogni 15 milioni di anni, una frequenza circa 10 volte superiore a quella stimata fino a oggi. A rendere possibile la nuova stima è stata l’analisi delle cosiddette sferule da impatto: in apparenza normali frammenti di roccia, in realtà sono la testimonianza geologica di antiche collisioni, residui di materiale roccioso vaporizzato o fuso a seguito dell’enorme calore sviluppato dalla collisione della Terra con grandi asteroidi o comete. Materiale sparato dunque verso l’alto, per poi ricadere al suolo sotto forma di piccole goccioline di roccia fusa, che condensando e solidificando sono andate a depositarsi sulla crosta terrestre. Testimonianze preziose ma non facili da individuare, avendo dato origine a strati sedimentari di appena qualche centimetro di spessore.
«Le particelle da impatto sono così piccole che, fondamentalmente, il lavoro consiste nel compiere lunghe escursioni osservando con grande attenzione tutte le rocce che s’incontrano», spiega Drabon. «Non ci vuole nulla a lasciarsele sfuggire».
Ricostruendo poi le conseguenze di queste collisioni sull’atmosfera, i ricercatori hanno scoperto che gli effetti combinati dovuti agli impatti con meteoriti dal diametro superiore ai 10 km hanno probabilmente fatto sì che la maggior parte dell’ossigeno presente in atmosfera venisse risucchiata. Risultato in linea con le testimonianze geologiche, dalle quali emerge che i livelli di ossigeno nell’atmosfera, nel primo periodo dell’Archeano, hanno sì subito variazioni ma si sono comunque mantenuti relativamente bassi. Questo fino a circa circa 2.4 miliardi di anni fa, quando l’intensità del “bombardamento” prese a diminuire. Ed è proprio a partire da quel periodo che la concentrazione di ossigeno in atmosfera iniziò ad aumentare rapidamente, innescando la cosiddetta catastrofe dell’ossigeno (Goe, dall’inglese Great Oxidation Event).
«Con il passare del tempo le collisioni divennero progressivamente meno frequenti e troppo piccole per essere in grado di alterare significativamente i livelli di ossigeno post-Goe. La Terra», conclude Marchi, «stava per diventare il pianeta che conosciamo oggi».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Geoscience l’articolo “Delayed and variable late Archaean atmospheric oxidation due to high collision rates on Earth”, di S. Marchi , N. Drabon, T. Schulz, L. Schaefer, D. Nesvorny, W. F. Bottke , C. Koeberl e T. Lyons