A caccia di pianeti extrasolari… inseguendo le aurore
Quattro possibili esopianeti orbitanti attorno a nane rosse sarebbero stati individuati da un potente radiotelescopio che avrebbe rilevato le aurore generate dall’interazione fra essi e il campo magnetico delle loro stelle. Se la scoperta verrà confermata, gli astronomi disporranno di un nuovo metodo di ricerca dei pianeti
di Nola Taylor Tillman/Scientific American
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Le intense emissioni aurorali provenienti dalle più piccole stelle dell’universo potrebbero fornire un nuovo metodo per scoprire pianeti rocciosi altrimenti invisibili. Quando un pianeta attraversa il campo magnetico della sua stella madre può emettere raffiche di onde radio. L’effetto è analogo a quello osservato dagli astronomi nel nostro stesso sistema solare: le emissioni periodiche di onde radio provocate dalle interazioni tra Giove e la sua luna Io. Grazie a un potente radiotelescopio alcuni ricercatori hanno appena identificato diverse stelle che producono quest’attività rivelatrice. Ognuna, dicono, potrebbe ospitare un piccolo mondo.
Quando una stella ruota, il suo campo magnetico si irradia nello spazio interagendo con le particelle cariche rilasciate dalla superficie e trascinate dal vento stellare. Se un pianeta orbita nelle immediate vicinanze della stella in rotazione, può ulteriormente accelerare queste particelle, provocando lampi luminosi nel campo delle onde radio di bassa frequenza. Questi lampi sono facilmente riconoscibili nei dati del Low Frequency Array (LOFAR), una rete europea di radiotelescopi che rileva le frequenze più basse ricevibili dalla Terra.
LOFAR sta effettuando un’ampia ricognizione nello spettro delle basse frequenze radio alla ricerca di sorgenti celesti. Analizzando i primi dati rilasciati dal 2019, che comprendono circa un quinto del cielo dell’emisfero boreale, i ricercatori hanno segnalato lampi radio sospetti provenienti da 19 nane rosse.
Sulle prime, i lampi di cinque di queste stelle sembravano corrispondere all’aspetto previsto dei lampi aurorali di un pianeta captati ad anni luce di distanza. Questi risultati compaiono in uno studio pubblicato su “Nature Astronomy”, e un successivo preprint ha ristretto i candidati a quattro stelle.
“Non vediamo andamenti tipici di emissioni prodotte da un’attività stellare”, precisa il primo autore dello studio Joseph Callingham, radioastronomo all’Università di Leida, nei Paesi Bassi. Tutte e quattro le stelle sono relativamente quiescenti, quindi non dovrebbero emettere le forti eruzioni stellari (brillamenti) che possono essere confuse con segnali aurorali di un pianeta in orbita nelle vicinanze.
A caccia di pianeti
Da anni gli astronomi vanno a caccia di segnali planetari che interagiscano con i campi magnetici delle stelle madri, in particolare in un piccolo sottoinsieme di soli ritenuto particolarmente favorevole. A un gruppo di stelle specifiche, Callingham e colleghi preferiscono però la ricognizione ad ampio raggio e casuale di LOFAR, che permette una caccia più obiettiva.
“È proprio un bel risultato” dichiara Gregg Hallinan, astronomo al California Institute of Technology, non coinvolto nello studio. “Nessuno era mai riuscito a ottenerlo in modo così obiettivo.”
A dispetto delle loro dimensioni ridotte, in termini di attività stellare molte nane rosse mostrano effetti che vanno molto al di là del loro peso piuma, e colpiscono i pianeti in orbita con eruzioni potentissime. In genere, maggiore è la rotazione della stella, maggiore è la frequenza dei suoi brillamenti. Ma anche le stelle più lente, come quelle del rilevamento di LOFAR, possono di tanto in tanto produrli.
In uno studio successivo il gruppo si è preoccupato di escludere i brillamenti ordinari come fonte dei lampi scoperti da LOFAR. A questo scopo gli scienziati hanno usato i dati ottici del Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA per fare un controllo incrociato sui livelli di attività delle loro stelle bersaglio.
Questa ricerca è stata pubblicata on line sul server di preprint arXiv.org, in vista della pubblicazione sulle “Astrophysical Journal Letters”. Una delle cinque stelle identificate risulta attiva nei dati di TESS, ma le altre quattro sono quiescenti, avvalorando ulteriormente l’ipotesi che i vistosi lampi radio siano dovuti a pianeti in orbita.
“Possiamo di fatto escludere [le eruzioni come causa]per le stelle meno attive perché non mostrano affatto eruzioni”, spiega Benjamin Pope, astronomo all’Università del Queensland in Australia, coautore dello studio su “Nature Astronomy” e primo autore del secondo articolo.
Ma gli scienziati non sono ancora in grado di affermare che i segnali dipendono senz’altro da pianeti non visibili. Altre tecniche più mature per rivelare i pianeti non hanno dato risultati per nessuna delle quattro stelle. “Ho provato a fare questa verifica, ma non posso dimostrare che si tratta di pianeti”, dice Pope.
La maggior parte degli sforzi volti a scovare questi pianeti è iniziato l’anno scorso, quando i ricercatori hanno annunciano di aver scoperto il primo candidato per un’interazione stella-pianeta: GJ 1151, una delle quattro stelle quiescenti. Due diversi gruppi hanno cercato invano di rilevare nel moto di GJ 1151 oscillazioni derivanti dalla presenza del pianeta suggerito dai dati di LOFAR, un pianeta di circa una massa terrestre in orbita attorno alla stella, forse con un periodo di qualche giorno, e che dovrebbe strattonarla leggermente avanti e indietro.
Questi risultati non sono granché entusiasmanti per i ricercatori che aspirano a trovare nuovi modi per localizzare e studiare pianeti extrasolari. Secondo Suvrath Mahadevan – astronomo alla Pennsylvania State University, che ha contribuito alla caccia all’ipotetico pianeta di GJ 1151 ma non ha partecipato ai due nuovi studi – se è vero che i pianeti potrebbero tradire la loro presenza con lampi aurorali, è comunque indispensabile una conferma indipendente di questa tecnica: “La prima volta vorresti avere a sostegno diverse prove convergenti”.
I dati provenienti da tecniche più solide per la ricerca dei pianeti dovrebbero sovrapporsi a quelli relativi ai lampi radio periodici segnalati da LOFAR o da altri osservatori analoghi, e ciascun risultato dovrebbe riecheggiare l’altro per rivelare in modo conclusivo la presenza di un pianeta. “In quel caso si potrebbe ritenere di aver spalancato un nuovo campo”, spiega Mahadevan. “Diventerebbe il nostro nuovo strumento di scoperta.”
Per ora Callingham e colleghi insistono con la loro ricerca, lasciando tempo a LOFAR per ulteriori osservazioni di GJ 1151, e continuano la loro analisi profonda dei dati celesti dell’osservatorio. Nei prossimi anni i miglioramenti di LOFAR e il debutto di una struttura anche più potente, lo Square Kilometer Array, offrirà opportunità di ricerca ancora più ricche. Sembra inevitabile l’annuncio di altri possibili pianeti aurorali.
Il problema dell’abitabilità
Alla base di questi lavori non c’è una semplice curiosità accademica. Non solo le nane rosse (o nane M, come gli astronomi preferiscono chiamarle) sono le stelle più piccole del cosmo, ma sono anche le più longeve e numerose. Secondo alcune stime il 75 percento delle stelle dell’universo sarebbe composto di nane M, ognuna capace di splendere per centinaia di miliardi (o addirittura di trilioni) di anni. Ma soprattutto, estrapolazioni statistiche da diversi rilevamenti fanno pensare che quasi ogni nana M ospiti almeno un pianeta. Da un calcolo approssimativo, i mondi delle nane M rappresenterebbero il grosso dei pianeti dell’universo. Resta da scoprire se questi luoghi possano ospitare o meno la vita. Studi come quelli di Callingham contribuiscono ad assestare il dibattito.
Nessuno si aspetta che i pianeti immersi nel campo magnetico di una nana M siano abitabili. Verrebbero talmente arsi dalla stella madre da rendere impossibile l’esistenza di acqua allo stato liquido in superficie, la base della vita per come la conosciamo. Ma potrebbero aiutare i ricercatori a rispondere a domande più essenziali su come le nane M influenzano le loro “nidiate” planetarie.
Per esempio, la tendenza di queste stelle a generare brillamenti esagerati potrebbe spazzare via l’atmosfera di pianeti altrimenti abitabili, ma un pianeta con un forte campo magnetico potrebbe vantare una protezione sufficiente e preservare la sua preziosa atmosfera. Gli astronomi sanno distinguere pianeti con e senza atmosfera in pochi sistemi selezionati, ma per ora non hanno metodi affidabili per misurare il campo magnetico di un mondo di dimensioni ridotte. Secondo il lavoro di Robert Kavanagh e Aline Vidotto – rispettivamente dottorando e docente all’Università di Leida – è proprio questo che si potrebbe ottenere dalle osservazioni di lampi aurorali, ammesso che l’intensità di un lampo sia proporzionale all’intensità del magnetismo del pianeta.
Secondo Vidotto, gli studi sui pianeti aurorali di nane M permetterebbero anche di sondare la densità e la velocità del vento solare della stella ospite. (Vidotto e Kavanagh non hanno partecipato ai due nuovi studi.) Queste misurazioni potrebbero contribuire a determinare la frequenza delle espulsioni di massa coronale delle nane M, enormi eruzioni di particelle che, come i brillamenti, non promettono nulla di buono per i pianeti nei dintorni. “Credo che [con questa tecnica]capiremo molte più cose sulla stella stessa”, dice Vidotto.
Tutto questo, è evidente, alimenta il mistero irrisolto dell’abitabilità dei pianeti che orbitano attorno alle nane M e l’enigma ancora più grande di dove sia più probabile trovare pianeti in grado di ospitare la vita.
“I pianeti non sono qualcosa di isolato. Girano attorno alla loro stella”, dice Mahadevan. “Credo che la chiave di volta per [comprendere l’abitabilità dei pianeti delle nane M]sia comprendere davvero l’attività magnetica e la magnetosfera di queste stelle.”