Ecco una nuova teoria sulla composizione della Nube di Oort
L’ampio serbatoio di comete che circonda il sistema solare, potrebbe avere più visitatori interstellari che oggetti permanenti. Lo rivela uno studio su Borisov, la prima cometa interstellare confermata, aprendo nuove prospettive per la comprensione del sistema solare nel suo contesto galattico
di Amir Siraj/Scientific American
www.lescienze.it
‘Oumuamua, il primo oggetto interstellare scoperto vicino alla Terra, ci ha lasciato più domande che risposte. Questo visitatore è stato osservato per la prima volta durante la sua uscita dal sistema solare, e i dati limitati che gli osservatori astronomici sono stati in grado di raccogliere si sono rivelati difficili da spiegare. Quello che sappiamo è che ‘Oumuamua non era né una cometa né un asteroide, e fino a oggi nessuna delle teorie esotiche riguardanti la sua origine è riuscita a spiegare completamente le sue proprietà.
Due anni dopo, però, è stato individuato un secondo visitatore interstellare che per composizione non avrebbe potuto essere più lontano da ‘Oumuamua: Borisov che mostrava una sorprendente somiglianza con le comete provenienti dalle zone lontane del nostro sistema solare, ma viaggiava su un’orbita chiaramente iperbolica. Come prima cometa interstellare, le somiglianze di Borisov con gli oggetti conosciuti nel sistema solare aprono la strada a un’eccitante opportunità mai offerta da ‘Oumuamua: un confronto diretto tra il sistema solare e i suoi dintorni cosmici.
In un recente articolo sulle “Monthly Notices of the Royal Astronomical Society: Letters”, riportiamo per la prima volta la realtà poco intuitiva svelata dalla scoperta della prima cometa interstellare: la nube di Oort, il vasto serbatoio di comete del sistema solare, che si trova a metà lungo la strada che ci separa dalla stella più vicina, ospita più visitatori che abitanti permanenti. Vicino alla Terra, le comete provenienti dall’interno del sistema solare sono più numerose rispetto a quelle provenienti dall’esterno del sistema solare, tanto che è stato individuato in modo definitivo solo un intruso da quando è stata rilevata la prima cometa con un telescopio da Gottfried Kirch nel 1680. Ma le osservazioni effettuate finora non sono rappresentative della maggior parte dei luoghi del sistema solare, poiché sono influenzate dalla nostra vicinanza al Sole.
Come risultato dell’effetto di focus gravitazionale (gravitational focusing), il Sole attrae preferibilmente le comete provenienti dall’interno del sistema solare, come un lampione che attira sciami di falene. D’altra parte, gli oggetti interstellari, che sfrecciano nella galassia ad alta velocità, sono quasi insensibili all’attrazione gravitazionale del Sole, e quindi non si raggruppano vicino a esso come fanno gli oggetti della nube di Oort. Il nostro nuovo lavoro mostra che ce ne sono così tanti che, nonostante la loro velocità, in qualsiasi momento nelle zone buie del sistema solare ci sono molti più intrusi interstellari di quante siano le comete di origine locale.
Questa conclusione ha effetti profondi sia per le osservazioni sia per le teorie future. Stimola nuove ricerche di oggetti nella nube di Oort, compresi gli studi di occultazione stellare come TAOS II, che esplorano il cielo alla ricerca di segnali nella luce delle stelle derivanti da allineamenti casuali di oggetti vicini e stelle lontane. Allo stesso tempo, la nuova scoperta sfida direttamente la nostra comprensione teorica di come si formano i pianeti, poiché implica che i sistemi planetari debbano espellere massa per alcuni ordini di grandezza in più riespetto a quanto si pensasse in precedenza. Infatti, il nostro nuovo articolo mostra che le stelle potrebbero dover espellere almeno tanta massa quanta ne conservano: un nuovo vincolo sorprendente sulla formazione dei sistemi planetari.
Le future scoperte di oggetti interstellari continueranno a influire sulla nostra comprensione del sistema solare nel suo contesto galattico. La Legacy Survey of Space and Time (LSST) dell’Osservatorio “Vera C. Rubin”, il cui inizio delle operazioni è previsto per fine 2023, dovrebbe scoprire almeno un oggetto interstellare al mese, un ritmo che ci aiuterà a individuare le origini degli oggetti interstellari e a saperne di più sulla formazione delle stelle e dei sistemi planetari. Probabilmente, però, le rivelazioni scientifiche più eccitanti sugli oggetti interstellari verranno dallo studio diretto della materia interstellare. Di che cosa sono fatti questi oggetti sorprendentemente abbondanti? Al costo di poche centinaia di milioni di dollari, la missione Comet Interceptor dell’Agenzia spaziale europea potrebbe essere in grado di campionare la coda gassosa di un oggetto come Borisov negli anni trenta di questo secolo, se si avvicina al Sole al momento giusto, alla velocità e alla direzione giusta.
Ma c’è anche un altro modo per cercare oggetti interstellari, e persino per ottenere i primi campioni di materia provenienti dall’esterno del sistema solare, a costi relativamente bassi e rimanendo comodamente sulla superficie terrestre. Qualsiasi materiale che entra in contatto con l’atmosfera del nostro pianeta brucia per attrito con l’aria, apparendo brevemente come una striscia di luce nel cielo: una meteora. Di conseguenza, è molto più facile trovare piccoli oggetti nell’atmosfera che nello spazio, dove dovremmo fare affidamento sulla luce solare riflessa. E anche se l’atmosfera fornisce un volume di ricerca molto più piccolo rispetto allo spazio, l’abbondanza di piccoli oggetti interstellari dovrebbe essere abbastanza grande da rendere la ricerca di meteore interstellari un’idea interessante.
Infatti, analizzando un insieme di dati del governo degli Stati Uniti accessibili al pubblico sulle meteore del 2019, ho scoperto un impatto che sembrava essersi avvicinato troppo velocemente per essere di un oggetto legato al sistema solare. Non riuscivo a crederci, dato che gli astronomi sono alla ricerca di una meteora interstellare dal 1950 o prima. Questa scoperta sarebbe stata poi confermata provvisoriamente come la prima meteora interstellare più grande della polvere, e da allora i funzionari del Pentagono hanno espresso interesse a declassificare potenzialmente le barre di errore associate alla rilevazione, dato il suo immenso valore scientifico.
Come direttore degli studi sugli oggetti interstellari del Galileo Project, sto effettuando una ricerca per scoprire meteoroidi interstellari sulla scala di grammi nella nostra atmosfera, usando reti di sensori non classificati e trasparenti. Di concerto con gli oggetti interstellari che LSST rileverà nelle vicinanze della Terra, scoperte del genere rivoluzionerebbero la nostra comprensione del sistema solare nel contesto dei suoi simili. Il Santo Graal dei meteoroidi interstellari sarebbe un oggetto della scala del chilogrammo o più grande che bruciasse sopra la Terra, poiché simili eventi potrebbero lasciare meteoriti facilmente recuperabili, cioè rocce che potrebbero rappresentare i primi pezzi di materia interstellare mai ottenuti dall’umanità. Un obiettivo del genere potrebbe essere realizzato in un decennio per poche decine di milioni di dollari – un budget dieci volte inferiore a quello della missione Comet Interceptor – con un migliaio di sistemi passivi di telecamere puntate su tutto il cielo distribuite a livello globale che aspettano pazientemente il proverbiale “ago nel pagliaio”: un meteoroide che tocchi il nostro pianeta.
Uno degli aspetti più pregevoli dello studio degli oggetti interstellari è che collega tanti campi diversi dell’astrofisica, spaziando dalle scienze planetarie ai fenomeni ad alta energia e incorporando una serie altrettanto varia di metodi per rilevarli. Insieme ad altre branche dell’astronomia “multimessaggera” che cercano di integrare i metodi tradizionali di indagine astronomica, come le indagini sulle onde gravitazionali e sui neutrini, le ricerche di oggetti interstellari potrebbero contribuire a rivelare informazioni senza precedenti che sfidano la comprensione del nostro posto nell’universo.
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” il 2 settembre 2021. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)
1 commento
Pingback: Una nuova teoria sulla composizione della Nube di Oort | L'informazione di INFORMARMY