L’ultima sfida climatica: le inondazioni sono sempre più violente e frequenti

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L’ultima sfida climatica: le inondazioni sono sempre più violente e frequenti

Il numero di persone esposte a eventi alluvionali è in continuo aumento in tutto il mondo a causa dell’intensificarsi di eventi meteorologici estremi sempre più violenti. E le previsioni per i prossimi decenni non sono confortanti, anche per il nostro paese, rendendo sempre più urgenti misure di adattamento per attenuare le conseguenze più disastrose
di Davide Michielin
www.lescienze.it

Uragani portentosi, mareggiate da record, alluvioni catastrofiche. Di anno in anno, la combinazione tra innalzamento del mare e intensificazione degli eventi estremi – talora rafforzati da fenomeni locali di subsidenza [il lento e progressivo sprofondamento, in questo caso delle aree costiere, che può avere origine naturale o antropica, NdR]e, in generale, dalla crescente pressione antropica sugli ecosistemi – espone un numero sempre maggiore di persone al rischio di inondazione.

L’escalation non riguarda solamente le pianure costiere, dove si concentra oltre un terzo della popolazione mondiale, ma anche regioni dell’entroterra ritenute storicamente sicure: nel loro insieme, le inondazioni fluviali e costiere costituiscono già oggi la faccia più familiare del cambiamento climatico, capace di causare ogni anno perdite per miliardi di euro.

Ciò nonostante, la carenza di dati osservativi ha limitato finora l’accuratezza delle stime sulla popolazione globale esposta, complicando sia la previsione che la prevenzione degli eventi. Nel tentativo di quantificare con maggiore precisione un fenomeno globale tanto complesso, un gruppo di ricercatori coordinati dalla geografa Beth Tellman dell’Università dell’Arizona, ha sviluppato il Global Flood Database.

L’innalzamento del mare

Questo strumento, liberamente consultabile, incrocia osservazioni satellitari giornaliere – a una risoluzione di 250 metri – con le informazioni di 913 grandi inondazioni avvenute tra il 2000 e il 2018 nel pianeta. I ricercatori hanno incluso, per la prima volta, anche alluvioni di natura eterogenea come il cedimento di una diga, nubifragi locali o la repentina fusione di nevai e ghiacciai. Per ogni evento, gli autori hanno stimato l’area inondata e il numero di persone che ci vivono, usando serie storiche della densità basate su dati geospaziali e pubblicando i risultati su “Nature”.

Nel complesso, le inondazioni hanno interessato 2,23 milioni di chilometri quadrati – quanto l’intera Groenlandia – e un numero di persone che oscilla tra 255 e 290 milioni. Nonostante i rischi, durante il periodo considerato la popolazione residente in queste aree è cresciuta di un numero di persone compreso tra i 58 e gli 86 milioni. Un aumento vigoroso, pari al 34,1 per cento, che resta tale anche considerando l’incremento demografico mondiale pari al 18,6 per cento.

Appoggiandosi alla medesima banca dati, i ricercatori hanno infine ipotizzato l’evoluzione del fenomeno al 2030, scoprendo che il disaccoppiamento tra incremento demografico ed esposizione al rischio di inondazione è destinato ad aumentare, interessando una sessantina di paesi soprattutto in Asia e in Africa.

Mappa degli eventi alluvionali divisi per tipologia (pioggia, fusione di nevai e ghiacciai; tempeste tropicali e mareggiate; cedimento di dighe) e popolazione esposta (Fonte: The Global Flood Database)

Come tutte le valutazioni globali, lo studio di Tellman ha però dei limiti. Innanzitutto, le alluvioni considerate dai ricercatori sono un sottoinsieme di quelle verificatesi nel periodo di riferimento: le osservazioni satellitari catturano solo le inondazioni più grandi. Inoltre, il cielo deve essere libero da nubi per sperare in un rilevamento ottico affidabile. Infine, la risoluzione spaziale dei dati satellitari e l’uso di modelli di popolazione globale non consentono un’analisi dettagliata dell’impatto delle alluvioni nelle aree urbane, incognita fondamentale per il futuro di una popolazione mondiale sempre più cittadina.

Conclusioni altrettanto fosche, limitate però alle inondazioni costiere, erano state pubblicate su “Nature Communications” alcune settimane prima da Aljosja Hooijer, di Deltares, e Ronald Vernimmen, di Data for Sustainability. I due idrologi olandesi hanno sviluppato il primo modello di elevazione globale derivato dai dati satellitari LiDAR. Grazie a questa tecnica di telerilevamento, che permette di determinare la distanza di un oggetto o di una superficie con il ricorso a un impulso laser, gli autori hanno identificato le regioni che oggi si trovano a meno di due metri sopra il livello medio del mare.

L’estensione complessiva di queste aree particolarmente vulnerabili al cambiamento climatico è di 1,05 milioni di chilometri quadrati – poco meno della Bolivia – e ricade per due terzi nella fascia tropicale. Il paese più esposto è l’Indonesia, mentre le persone che oggi vivono in queste aree sono 267 milioni. Qualora il livello del mare salisse di un metro, entro fine secolo potrebbero diventare 410 milioni.

La subsidenza

“La fusione dei ghiacciai e l’espansione termica dell’acqua provocate dal cambiamento climatico sono le cause più note dell’innalzamento del livello del mare, ma gli elementi che vi contribuiscono sono ben più numerosi. E Lo stesso vale per le inondazioni, basti pensare all’aumento di frequenza e intensità delle mareggiate o ai processi di subsidenza, cioè il lento e progressivo sprofondamento delle pianure costiere”, premette Alessio Rovere, ricercatore all’istituto MARUM dell’Università di Brema e il Leibniz Center for Tropical Marine Research.

Secondo uno studio pubblicato in gennaio su “Science” e coordinato da Gerardo Herrera dell’Instituto Geológico y Minero de España a Madrid, entro dieci anni 635 milioni di persone si troveranno ad abitare in zone a rischio di alluvione, con conseguenze catastrofiche per il prodotto interno globale.

Sebbene i movimenti di abbassamento verticale della superficie terrestre possano dipendere sia da processi geologici che da attività umane, queste ultime hanno da tempo superato le prime e producono effetti in poche decine di anni. Lo sfruttamento eccessivo e il mancato rispetto del naturale tempo di ricarica delle falde acquifere innesca o accelera i processi di subsidenza, così come l’estrazione di idrocarburi e le bonifiche.

La revisione della letteratura scientifica condotta da Herrera e colleghi evidenzia come, nell’ultimo secolo, l’emungimento delle falde abbia innescato fenomeni di subsidenza in oltre 200 località del pianeta, in 34 paesi. Gli autori hanno sviluppato un modello che combina analisi spaziali e statistiche per identificare le aree più vulnerabili sulla base di alcuni fattori come il rischio di inondazione e l’esaurimento delle acque sotterranee.

Nonostante il modello non consideri eventuali misure di mitigazione già esistenti – e dunque sovrastimi il rischio in aree come i Paesi Bassi o il Giappone – i risultati suggeriscono che in appena un decennio, 1,6 miliardi di persone saranno minacciate dalla subsidenza. Di queste, 635 milioni abiteranno in aree a rischio di alluvione, mettendo a rischio 9,78 trilioni di dollari (9780 miliardi di dollari). In termini assoluti, la maggioranza delle persone a rischio vive in India e in Cina, sebbene le aree a rischio caratterizzate da maggiore densità abitative si trovino in Egitto e Indonesia. In termini percentuali, i paesi più vulnerabili sono Bangladesh, Egitto, Italia e Paesi Bassi, dove almeno un terzo della popolazione risiede in aree a maggiore vulnerabilità.

L’Italia
Nel nostro paese l’area più interessata da processi di subsidenza è la Pianura padana, mentre nell’Italia centrale e meridionale sono a rischio numerose piane costiere. Secondo l’annuario dei dati ambientali curato dall’ISPRA, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, le regioni più esposte alla subsidenza sono Veneto ed Emilia-Romagna, nelle quali oltre la metà dei comuni è interessata, seguite da Toscana, Campania, Lombardia e Friuli-Venezia Giulia. Sono queste le regioni a dover affrontare in prima linea l’avanzata delle acque.

Mappa delle aree che in Italia sono interessate da fenomeni di subsidenza (Fonte: Rapporto ISPRA)

Dal 1850 a oggi il Mediterraneo si è innalzato di circa 1,25 millimetri l’anno, un tasso significativamente più veloce di quello registrato in qualunque altro periodo degli ultimi 4000 anni. A sostenerlo sono i risultati di una ricerca pubblicata lo scorso mese su “Nature Communications” e coordinata dal geologo Matteo Vecchi dell’Università di Pisa. I ricercatori hanno ricostruito l’evoluzione del livello medio del Mediterraneo centrale e occidentale negli ultimi 10.000 anni basandosi su 401 indicatori di paleo-livelli del mare datati al radiocarbonio, derivati per la maggioranza da carotaggi dei sedimenti marini.

Dall’analisi è emerso che tra 10.000 e 7000 anni fa, durante la prima fase di fusione delle calotte glaciali, i tassi di risalita del livello del mare si sono attestati in media a circa 8,5 millimetri all’anno. “Nonostante alcune oscillazioni, che coincidono con eventi quali la cosiddetta piccola era glaciale tardoantica oppure il periodo caldo medievale, negli ultimi 4000 anni i tassi medi sono scesi e sono rimasti nell’ordine di 0,45-0,55 millimetri all’anno grazie alla stabilizzazione delle calotte glaciali”, spiega Rovere, tra gli autori dello studio. “Dal 1850 a oggi, si è registrata invece una rapida impennata, con tassi medi che si attestano tra 1,1 e 1,3 millimetri annui. È superfluo sottolineare che questa accelerazione coincide con l’inizio dell’età industriale contemporanea.”

Gli eventi estremi

Se la costa piange, l’entroterra non può certo sorridere, come testimonia la catastrofica alluvione che nel mese di luglio ha messo in ginocchio Belgio e Germania. L’aumento di frequenza di eventi meteorologici estremi come nubifragi e uragani non lascia dormire sonni tranquilli nemmeno a chi, per esempio, abita a decine di chilometri dalla costa.

“Le fotografie delle strade allagate di Houston dopo il passaggio del ciclone Harvey nell’agosto del 2017 hanno fatto il giro del mondo. L’inondazione fu il risultato di uno storm surge, cioè l’improvviso innalzamento del livello del mare causato dall’acqua sospinta verso la costa dai forti venti e dalle basse pressioni tipiche di un uragano”, aggiunge Rovere.

Proprio gli uragani rappresentano una delle principali calamità naturali delle regioni tropicali, sia in termini di potenza distruttiva che di danni economici. Come se non bastasse, negli ultimi 40 anni le loro traiettorie si sono spinte sempre più in prossimità delle coste, sferzandole con intensità crescente. A questa conclusione giunge un’analisi statistica effettuata da Ralf Toumi e Shuai Wang dell’Imperial College di Londra, pubblicata su “Science”. I due fisici hanno esaminato su scala planetaria l’attività dei cicloni tropicali che, tra il 1982 e il 2018, hanno lambito la terraferma.

I risultati rivelano che la frequenza con cui essi raggiungono le aree litoranee – definite da una distanza inferiore ai 200 chilometri dalla linea di costa – è aumentata di circa due unità per ogni decennio. Nello stesso intervallo di tempo, la distanza tra la terraferma e il punto in cui i cicloni raggiungono la massima intensità si è ridotta in media di circa 30 chilometri.

Di certo, qualunque sia la latitudine, la prevenzione non può prescindere dalla difesa dei litorali. “Mangrovie e barriere coralline, così come le nostre dune, soprattutto se vegetate, contribuiscono nello smorzare l’energia delle onde, ridurre i picchi di flusso e dunque arginare significativamente le inondazioni”, sostiene Rovere, senza per questo sminuire il ruolo di soluzioni artificiali. Purché le infrastrutture siano progettate con un occhio al necessario adattamento futuro e non solo alle urgenze del presente.

“Secondo uno degli scenari più plausibili tra quelli delineati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), cioè a emissioni intermedie di gas serra – conclude Rovere – a fine secolo il livello del mare globale potrebbe essere fino a 70 centimetri più alto di oggi. Le infrastrutture dovrebbero basarsi su questi numeri, non sulle stime più ottimistiche.”

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