Le comete interstellari non sono poi così rare

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Le comete interstellari non sono poi così rare

Secondo uno studio condotto da Amir Siraj e Avi Loeb del Center for Astrophysics di Harvard, nella nube di Oort gli oggetti interstellari sarebbero più numerosi degli oggetti appartenenti al Sistema solare. I due autori hanno inoltre dimostrato che circa l’un per cento del carbonio e dell’ossigeno nella Via Lattea potrebbe essere contenuto in tali corpi celesti.
di Maura Sandri
www.media.inaf.it

Nel 2019, gli astronomi hanno avvistato qualcosa di incredibile transitare nel nostro “cortile” cosmico: una cometa proveniente da un altro sistema stellare. L’oggetto è stato chiamato 2I/Borisov – dal nome del suo scopritore, l’astrofilo russo Gennadiy Borisov – ed è una “palla di neve ghiacciata” che ha viaggiato a 180mila chilometri all’ora, attraversando il Sistema solare su un’orbita iperbolica. È stata la prima e (per ora) unica cometa interstellare mai rivelata dall’uomo, nonché il secondo oggetto interstellare osservato a transitare nei paraggi, dopo 1I/‘Oumuamua. Ma cosa succederebbe se questi visitatori interstellari – comete, meteore, asteroidi e altri detriti provenienti da oltre i confini del Sistema solare – fossero più comuni di quanto pensiamo?

In un nuovo studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, gli astronomi Amir Siraj e Avi Loeb del Center for Astrophysics | Harvard e Smithsonian (CfA) hanno presentato nuovi calcoli che mostrano come nella nube di Oort gli oggetti interstellari siano più numerosi degli oggetti appartenenti al Sistema solare, mentre vicino al Sole sembra vero il contrario, a causa della forza gravitazionale degli oggetti legati.

Rilevata nel 2019, la cometa di Borisov è stata la prima cometa interstellare a essere passata attraverso il Sistema solare. Crediti: Nasa, Esa and D. Jewitt (Ucla)

Ma se ci sono così tanti visitatori interstellari, perché ne abbiamo visti solo due?

Secondo Siraj la spiegazione è molto semplice: non abbiamo ancora la tecnologia per vederli. Tenete conto che la nube di Oort si estende su una regione da 2mila a 200mila unità astronomiche (0.03 a 3.2 anni luce) dal Sole e, a differenza delle stelle, gli oggetti nella nube di Oort non emettono luce. Questi due fattori rendono questi oggetti nel Sistema solare esterno incredibilmente difficili da vedere.

Come suggeriscono gli autori, la loro ipotesi può essere verificata con indagini di occultazione stellare della nube di Oort. In particolare, le osservazioni con tecnologia di prossima generazione potranno aiutare a confermare i risultati del team. Sia l’Osservatorio Vera C. Rubin, previsto per il 2022, che il Transnettunian Automated Occultation Survey (Taos II) – specificamente progettato per rilevare le comete nelle zone più remote del Sistema solare –  daranno un grande contributo alla rilevazione di questi oggetti.

Secondo Siray, l’abbondanza di oggetti interstellari nella nube di Oort suggerisce che dalla formazione dei sistemi planetari siano rimasti molti più detriti di quanto si sia sempre pensato. «I nostri risultati mostrano che gli oggetti interstellari possono porre vincoli interessanti ai processi di formazione del sistema planetario, poiché la loro implicita abbondanza richiede l’espulsione di una massa significativa di materiale sotto forma di planetesimi», conclude Siraj. «Insieme agli studi osservativi sui dischi protoplanetari e agli approcci computazionali alla formazione dei pianeti, lo studio degli oggetti interstellari potrebbe aiutarci a svelare i segreti di come si è formato il nostro sistema planetario, e altri».

Gli autori hanno inoltre dimostrato che circa l’un per cento del carbonio e dell’ossigeno nella Via Lattea può essere contenuto negli oggetti interstellari, il che implica un budget di elementi pesanti per gli oggetti interstellari paragonabile a quello degli elementi pesanti del modello di nebulosa solare. Riguardo alla distribuzione delle dimensioni degli oggetti interstellari, c’è ancora una notevole incertezza

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