Svelato il mistero: sono le aurore a riscaldare Giove e Saturno
Per cinquant’anni gli scienziati si sono chiesti da dove provenisse l’energia che rende caldissimi gli strati superficiali dei due giganti gassosi che, molto lontani dal Sole, dovrebbero essere gelidi. Ora il mistero è stato svelato
di Robin George Andrews/Quanta Magazine
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Dimenticati dal Sole, sulle lontane sponde del sistema solare, si è sempre creduto che Giove e Saturno, i giganti gassosi, e Urano e Nettuno, i giganti di ghiaccio, fossero i regni del gelo. Quando, alla fine degli anni settanta e ottanta, la sonda Voyager della NASA li sorpassò, scoprimmo che tutti e quattro bruciavano di febbri planetarie, una rivelazione sconcertante come trovare un falò nel freezer.
Le successive osservazioni dei telescopi con base a Terra e delle sonde Galileo e Cassini dimostrarono che la febbre che li avvolge ha durata nel tempo. Questa piressia planetaria è acuta: alle basse latitudini di Giove, per esempio, la temperatura dovrebbe essere un gelido -110 °C. Invece lì l’atmosfera cuoce a 325 gradi. Quale fornace si nasconde dietro tutto ciò? E in che modo questa ignota sorgente di calore riscalda non un solo punto del pianeta, ma tutto lo strato superiore della sua atmosfera?
Gli scienziati hanno cercato una spiegazione a questa “crisi energetica”, ma sono rimasti “confusi per circa 50 anni”, secondo le parole di James O’Donoghue, astronomo planetario dell’Agenzia spaziale giapponese. Ora due articoli hanno dimostrato una volta per tutte che il calore di Giove e Saturno proviene dalle loro luci settentrionali e meridionali, dalle loro aurore.
Il risultato deriva da misurazioni dettagliate delle atmosfere superiori di entrambi i giganti. La temperatura atmosferica di Saturno è stata misurata dalla sonda Cassini durante le manovre che l’hanno poi portata a tuffarsi per sempre nel pianeta; quella di Giove è stata ricostruita per mezzo di un telescopio situato sulla cima di un gigantesco vulcano hawaiano. Entrambe mostrano che le atmosfere sono più calde nei pressi delle zone aurorali, sotto i poli magnetici. Via via che ci si avvicina all’equatore, la temperatura scende. È chiaro insomma che a produrre il calore sono le aurore e che, come per i termosifoni, questo calore decresce con la distanza.
La soluzione del problema potrebbe avere ripercussioni inattese. I pianeti – da quelli del nostro sistema solare a quelli che orbitano attorno a stelle distanti – non sempre conservano la propria atmosfera. Molti involucri gassosi vengono distrutti nel corso del tempo, e in qualche caso pianeti giganti si trasformano in minuscoli gusci inabitabili. I ricercatori vogliono imparare a distinguere questi mondi dai pianeti di tipo terrestre. E per farlo, sostiene Zarah Brown, ricercatrice all’Università dell’Arizona, “uno dei parametri principali è la temperatura dell’atmosfera esterna, perché è da lì che il gas si disperde nello spazio”.
Aurore aliene
Ancora non capiamo alla perfezione le aurore boreali e australi del nostro pianeta, ma le basi sono chiare. Il Sole spara raffiche di campi magnetici e particelle cariche nello spazio. Quando queste raffiche – meglio note come vento solare – raggiungono la Terra, interagiscono con la sua bolla magnetica, la magnetosfera. Le particelle cadono a spirale verso il Nord e il Sud magnetico, dove rimbalzano contro atomi di gas e molecole dello strato superiore dell’atmosfera. Questi impatti caricano temporaneamente i gas, che quindi emettono lampi di luce visibile.
Per avere un’aurora di solito servono tre ingredienti: una fonte di particelle cariche, un campo magnetico e un’atmosfera. Giove e Saturno rispettano la lista, ma le loro aurore sono diverse dalle nostre.
Il campo magnetico terrestre dipende dal ribollire delle leghe liquide di nickel e ferro molto al di sotto della crosta. I giganti gassosi non hanno nuclei di ferro liquido. La loro immensa gravità comprime enormi volumi di idrogeno liquido nel mantello, al punto che gli elettroni dell’idrogeno schizzano via, trasformandolo in un metallo che genera magnetismo.
Considerata l’immensità di questi mulinelli di idrogeno metallico, la loro magnetosfera fa apparire lillipuziana quella della Terra. La magnetosfera di Giove “è la più grande struttura del sistema solare” conferma O’Donoghue. “Ha una coda che raggiunge Saturno, e forse va oltre.”
I giganti gassosi, inoltre, non possono contare su una riserva di particelle cariche o di plasma proveniente dal vento solare, il quale si dissipa al crescere della distanza dal Sole. Si affidano invece a un’alchimia vulcanica.
Giove deriva gran parte del suo plasma dal satellite naturale Io, l’oggetto più vulcanico noto alla scienza. Le sue eruzioni magmatiche quasi continue lanciano una gran quantità di materiale vulcanico nello spazio, dove, dopo un bel bagno di luce solare, si carica elettricamente e precipita su Giove. Il plasma di Saturno invece proviene soprattutto da Encelado, un satellite naturale di ghiaccio riflettente come uno specchio, che spara getti spettacolari di gelida materia acquosa nello spazio.
Questo plasma erutta nell’estesa magnetosfera dei pianeti, che lo accelerano in direzione dei poli. Lì le particelle cariche urtano le molecole di gas dell’atmosfera.
Le aurore di Saturno emettono soprattutto luce ultravioletta; quelle di Giove sono sia nell’ultravioletto sia nell’infrarosso. Ma i processi responsabili della luce non sono gli stessi che producono il calore. In questo secondo caso, afferma O’Donoghue, “tutto dipende dall’attrito”. Il plasma scorre verso i poli magnetici seguendo le linee di campo, linee magnetizzate che si estendono nello spazio. Queste linee e le loro correnti ruotano assieme al pianeta. Non sempre però riescono a tenere il passo: Giove, per esempio, fa una rotazione completa ogni dieci ore. Quando le correnti di plasma restano indietro rispetto alla rotazione, vengono attraversate dai forti venti occidentali di Giove. La spinta di questi venti sui flussi di plasma, più lenti, crea attrito, e questo attrito genera calore; nel caso di Giove, forse 125 volte più calore di quello che il pianeta riceve dal Sole. “Sembra una follia”, ammette O’Donoghue.
Non sorprende, a questo punto, che gli astronomi si siano chiesti se non siano forse le aurore a provocare le febbri planetarie. “Da decenni sospettavamo che le aurore fossero cariche di energia”, dice Luke Moore, ricercatore senior all’Università di Boston. Ma per poter passare dal sospetto alla certezza, gli astronomi avevano bisogno di una mappa: nello specifico, una mappa termica del gas e dello strato superiore dell’atmosfera dei giganti, con cui capire se le temperature più alte si possono sovrapporre alle aurore, e se questo calore si diffonde all’interno pianeta.
La prima mappa ce l’ha fornita un “ultimo atto”. Nell’aprile 2017, dopo 13 anni di attività in orbita attorno a Saturno, la sonda Cassini della NASA ha ricevuto un ordine particolare: descrivere 22 orbite attorno al pianeta tuffandosi ripetutamente tra esso e i suoi anelli. Il cosiddetto “gran finale”, conclusosi il 15 settembre 2017, ha permesso alla sonda di gettare uno sguardo ravvicinato esclusivo su questo pianeta, prima di bruciare fra le sue nubi.
Giunta nei pressi di Saturno, la sonda ha scrutato le stelle luminose attraverso l’atmosfera del pianeta. La luce proveniente da queste stelle sembrava cambiare a seconda della densità dell’atmosfera. Densità e temperatura di un gas sono correlate, quindi i ricercatori hanno sfruttato decine di queste misurazioni, note come occultazioni stellari, per produrre una mappa termica dettagliata sia del lato diurno sia di quello notturno dell’atmosfera superiore del pianeta.
Pubblicata lo scorso anno su “Nature Astronomy” questa mappa mostra un picco termico attorno alle aurore, e una china più dolce per le temperature attorno all’equatore.
Sembrava proprio che le colpevoli fossero le aurore. E “se la nostra teoria della ridistribuzione dell’energia su Saturno è corretta, dovrebbe funzionare anche per Giove”, aveva previsto Brown, autore principale dello studio su Saturno.
Ora, grazie al lavoro di O’Donoghue e colleghi, ne abbiamo la conferma.
Anche per Giove serviva una mappa termica, ma in questo caso la sfida era tutt’altro che facile: l’atmosfera superiore del pianeta è caotica e cambia di settimana in settimana. Non si può misurare la temperatura ai poli una notte, e poi confrontarla con la temperatura all’equatore qualche settimana dopo. I cambiamenti atmosferici sono sostanziali, e qualsiasi traccia dei flussi termici andrebbe perduta.
Ciò di cui i ricercatori avevano bisogno era una mappa termica globale prodotta in un periodo relativamente breve, che mostrasse il flusso del calore nel corso di poche ore.
O’Donoghue, Moore e colleghi si sono rivolti al Keck Observatory sulla cima del Mauna Kea, il vulcano quiescente nelle Hawaii, per osservare Giove nell’infrarosso durante due notti – il 14 aprile 2016 e il 25 gennaio 2017 – cinque ore per volta. Per ogni notte hanno creato una mappa termica ad alta risoluzione del lato diurno. Entrambe mostravano chiari picchi di temperatura attorno alle zone aurorali, con punte incredibili di 730 °C. Questo zenit termico declinava gradualmente verso l’equatore (dove la colonnina toccava ancora un impressionante 325 °C).
I risultati, attualmente disponibili in un preprint accettato da “Nature”, concordano con le osservazioni della sonda Cassini su Saturno, e sono già considerati una prova schiacciante del ruolo delle aurore nella crisi energetica. “Scoprire che si tratta di riscaldamento aurorale è un grande passo avanti”, dice Rosie Johnson, ricercatrice di fisica spaziale all’Università di Aberystwyth, in Regno Unito, non coinvolta nei due articoli.
Licia Rey, ricercatrice di fisica spaziale e planetaria all’Università di Lancaster, nel Regno Unito, non coinvolta negli articoli, loda la rigorosità dei dati su Saturno, ma si mostra meno convinta dell’articolo su Giove: “Usano due sole notti, e questo mi sembra un problema”. Ma nonostante le perplessità aggiunge: “Credo che il risultato sul gradiente di temperatura [di Giove]probabilmente reggerà, perché l’hanno già osservato su Saturno”.
Quella di avere un numero relativamente basso di osservazioni “è una preoccupazione legittima, perché questi pianeti giganti sono luoghi molto dinamici”, ammette Moore. Ma sono già state osservate altre notti gioviane, che al momento sono in corso di studio.
La maggior parte dei ricercatori indipendenti sembra comunque convinta che le febbri planetarie dipendano dalle aurore. Gli articoli fornirebbero “una bella conferma del fatto che ciò che sospettavamo è proprio ciò che avviene” afferma Leigh Fletcher, planetologo all’Università di Leicester, nel Regno Unito, non coinvolto nel lavoro. “L’energia trapela dal dominio aurorale fino alle basse latitudini.” La domanda è: come?
Gli spettacolari venti dell’ovest
La gran parte dei modelli di circolazione atmosferica non mostra uno spostamento del calore dalle aurore all’equatore attraverso gli impetuosi venti occidentali, eppure le mappe termiche parlano chiaro: questi ostacoli tempestosi in qualche modo vengono superati.
Le osservazioni della sonda Cassini hanno ispirato una possibile soluzione. Cassini aveva scoperto che, di tanto in tanto, una perturbazione nello strato inferiore dell’atmosfera di Saturno poteva far migrare quello strato verso l’alto. Un’inversione di questo tipo potrebbe disturbare e rallentare i forti venti occidentali dello strato superiore. Forse quanto basta per lasciar filtrare il calore aurorale.
In teoria questo meccanismo potrebbe valere anche su Giove. Gli strati superiori dei giganti gassosi però non hanno nubi – segni rivelatori del movimento – e questo rende “diabolicamente complicato”, secondo le parole di Fletcher, studiarne i venti. Per ora, questo aspetto della crisi energetica resta un enigma senza risposta.
Il gruppo di O’Donoghue sospetta che ci sia un secondo processo in grado di distribuire il calore su Giove. Di tanto in tanto accade che l’intensa attività dei venti solari eserciti una pressione sulla magnetosfera gioviana, comprimendola. Studi precedenti indicano che in questi casi i flussi di plasma di Io possono essere spinti velocemente nell’atmosfera superiore. Il plasma aggiuntivo esercita una maggiore resistenza contro i venti occidentali, e questo potrebbe produrre un picco termico.
Forse un picco di questo tipo è stato osservato nei recenti rilevamenti. Durante l’osservazione del 25 gennaio 2017, l’attività del vento solare era relativamente intensa, e il caldo strato superiore ha mostrato un picco di temperatura. Al contempo il gruppo di ricerca ha notato una curiosa struttura ad alta temperatura in moto dalle zone aurorali verso l’equatore. Niente di tutto ciò era stato osservato il 14 aprile 2016, quando il vento solare era relativamente mite.
Il gruppo ipotizza che una raffica di vento solare a inizio 2017 abbia fatto contrarre la magnetosfera del pianeta. Ma forse sono in ballo altri fattori. Ray suggerisce che un’impennata nell’attività vulcanica di Io potrebbe fornire una spiegazione alternativa. Ma senza altre osservazioni non possiamo esserne certi, conclude O’Donoghue.
Nonostante questi dilemmi in sospeso, l’identificazione definitiva delle aurore di Giove e Saturno come piromani delle atmosfere ha accresciuto notevolmente la nostra comprensione di questi mondi. Urano e Nettuno restano invece avvolti in una spessa nebbia di incertezze. Hanno atmosfere, campi magnetici e comportamenti rotazionali diversi – “sono bizzarri”, come dice Brown – e dunque ciò che vale per i giganti gassosi potrebbe non valere per i giganti di ghiaccio. Sono talmente lontani che fatichiamo a osservarli in dettaglio con i telescopi terrestri, e sembra che nessuna sonda andrà a visitarli nel prossimo futuro. Per ora, questi reami distanti restano degli sconosciuti, afflitti entrambi da febbri planetarie ancora inspiegate.
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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato il 22 giugno 2021 da QuantaMagazine.org, una pubblicazione editoriale indipendente online promossa dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione pubblica della scienza. Traduzione di Antonio Casto, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)