Aveva ragione Stephen Hawking: i buchi neri diventano sempre più grandi
L’area dell’orizzonte degli eventi di un buco nero non può diminuire. L’ipotesi, formulata cinquant’anni fa dal fisico teorico e cosmologo britannico, è stata ora confermata dall’analisi delle onde gravitazionali emesse dalla fusione di due di questi oggetti estremi
di Matteo Serra
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Da qualche anno è diventata una piacevole routine l’osservazione diretta di onde gravitazionali, le increspature dello spazio-tempo previste dalla teoria generale della relatività di Albert Einstein, che vengono rilevate ormai con regolarità a partire dal 2015 dagli interferometri degli esperimenti LIGO, negli Stati Uniti, e Virgo, in Italia. La possibilità di osservare questi segnali non ha soltanto aperto una nuova era per l’astronomia, ma offre anche l’occasione di verificare alcune ipotesi sulla natura più profonda degli oggetti più estremi dell’universo, come le stelle di neutroni e i buchi neri.
La conferma nel “compleanno” dell’ipotesi
Una di queste ipotesi, formulata nel 1971 dal celebre fisico teorico e cosmologo britannico Stephen Hawking, scomparso nel 2018, è il cosiddetto “teorema dell’area”, secondo cui la superficie dell’orizzonte degli eventi di un buco nero non può mai diminuire nel tempo. Verificare questo teorema, che ha profonde implicazioni sulla comprensione del comportamento dei buchi neri, è sempre stata considerata un’impresa proibitiva, ma ora un gruppo di ricerca guidato da Maximiliano Isi del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston ha presentato sulle “Physical Review Letters” la prima prova diretta della validità del teorema.
Per farlo, gli scienziati hanno studiato l’evento associato alla prima osservazione di onde gravitazionali, GW150914, generate nel processo di fusione tra due buchi neri: l’analisi ha dimostrato che la somma delle aree dei due buchi neri “genitori” è inferiore a quella del buco nero finale prodotto dalla fusione, confermando così la previsione del teorema.
Per capire meglio la portata di questo risultato, è necessario “immergersi” nello strano mondo dei buchi neri, da sempre considerati tra gli oggetti più bizzarri e misteriosi del cosmo. La proprietà che li caratterizza maggiormente è la presenza di un punto di non ritorno: una volta superato un confine ben preciso detto “orizzonte degli eventi”, il campo gravitazionale dei buchi neri diventa così intenso da impedire sia alla materia sia alla luce di sfuggire. Benché questi oggetti siano stati considerati a lungo una semplice curiosità matematica, oggi esistono prove certe della loro reale esistenza astrofisica, anche se resta ancora molto da capire sul loro comportamento e sulle loro proprietà.
La termodinamica dei buchi neri
Molte delle cose che già sappiamo, almeno dal punto di vista teorico, le dobbiamo sicuramente a Stephen Hawking, che ha dedicato gran parte della sua attività di ricerca allo studio delle proprietà dei buchi neri, realizzando scoperte di portata rivoluzionaria. Il punto di partenza delle sue ricerche fu proprio il teorema dell’area proposto nel 1971, che porta in dote un sorprendente parallelo con il secondo principio della termodinamica. Quest’ultimo prevede infatti che l’entropia, una grandezza fisica che rappresenta il grado di disordine di un sistema fisico, non possa mai decrescere nel tempo, proprio come l’area dell’orizzonte degli eventi di un buco nero nel teorema di Hawking.
Questa similitudine suggerì immediatamente la possibilità che i buchi neri possano essere descritti dalle leggi della termodinamica, comportandosi come oggetti termici, in grado quindi anche di emettere calore: l’ipotesi, formalizzata nel 1972 dal fisico israeliano Jacob Bekenstein – che dimostrò la sostanziale equivalenza tra l’area di un buco nero e la sua entropia – fu considerata inizialmente molto sorprendente e in contraddizione con la natura stessa dei buchi neri, che per definizione non potrebbero emettere energia né radiazione.
Tuttavia pochi anni dopo, nel 1974, Hawking dimostrò che tenendo conto di opportuni effetti quantistici, un buco nero può avere entropia ed emettere radiazione, sia pure su una scala temporale estremamente lunga: questo fenomeno è da allora noto come “radiazione di Hawking”, e rappresenta uno dei capisaldi su cui si basa tutt’oggi la fisica dei buchi neri.
Dalla dimostrazione matematica…
Il teorema dell’area di Hawking fu poi dimostrato in modo rigoroso dal punto di vista matematico, ma è sempre mancata una conferma osservativa diretta: riuscire a verificarlo per un singolo buco nero, d’altra parte, è sostanzialmente impossibile. Tuttavia all’indomani della prima rilevazione diretta di onde gravitazionali, ottenuta dagli interferometri dell’esperimento statunitense LIGO nel 2015, lo stesso Hawking ipotizzò che dall’analisi del segnale gravitazionale sarebbe stato possibile ottenere una conferma del teorema dell’area.
L’onda gravitazionale osservata da LIGO era stata prodotta nel processo di fusione tra due buchi neri, e Hawking sapeva bene che il suo teorema, applicato a questo caso specifico, prevede che l’area dell’orizzonte del buco nero finale non possa essere minore della somma delle aree dei due buchi neri iniziali. La svolta è arrivata nel 2019, quando Maximiliano Isi e i suoi colleghi del MIT hanno messo a punto una particolare tecnica di analisi delle onde gravitazionali emesse nella fase precedente e in quella immediatamente successiva alla fusione tra i buchi neri – fasi dette rispettivamente di inspiral e ringdown – che permette di ricavare con precisione i valori della massa e del momento angolare (una grandezza fisica legata alla velocità di rotazione) dei buchi neri iniziali e di quello finale.
… alla conferma sperimentale
Il punto chiave è che l’area dell’orizzonte degli eventi di un buco nero è direttamente legata alla sua massa e al suo momento angolare: stimolati dal fisico Kip Thorne (uno dei “padri” di LIGO), i ricercatori statunitensi hanno così applicato il loro metodo all’evento GW150914 del 2015, riuscendo a ricavare i valori delle aree interessate. Il risultato ottenuto parla chiaro: l’area totale degli orizzonti degli eventi dei due buchi neri prima della fusione era pari a circa 235.000 chilometri quadrati, quella dell’orizzonte del buco nero finale è intorno ai 367.000 chilometri quadrati (per avere un’idea delle dimensioni in gioco, si consideri che l’Italia ha una superficie di circa 300.000 chilometri quadrati, intermedia tra le due misure).
“La tecnica che abbiamo sviluppato ci ha permesso di separare in modo chiaro i dati raccolti dall’esperimento LIGO relativi a prima e dopo la fusione: in questo modo, siamo stati in grado di stimare indipendentemente l’area dei buchi neri iniziali e di quello finale, dimostrando che quest’ultimo ha un’area maggiore, in accordo con la previsione di Hawking”, spiega Maximiliano Isi. Più nello specifico, il gruppo di ricerca ha calcolato che il teorema non è violato con una probabilità di almeno il 95 per cento. Si tratta un livello di confidenza già molto alto, ma che potrà migliorare analizzando anche altri eventi simili.
“È un risultato molto interessante, soprattutto perché la conferma del teorema dell’area di Hawking rappresenta un test importante per la teoria della relatività generale di Einstein: se quest’ultima non fosse corretta, non solo l’area dell’orizzonte di un buco nero potrebbe non aumentare, ma anche la relazione tra area, massa e momento angolare del buco nero sarebbe diversa”, sottolinea Paolo Pani, professore associato di fisica gravitazionale alla “Sapienza” Università di Roma. “A onor del vero va detto che si tratta di un risultato atteso, perché era già noto che i valori delle masse e dei momenti angolari dei buchi neri relativi all’evento GW150914 fossero perfettamente in accordo con le previsioni della relatività generale. Dal momento che l’area dipende solo da questi parametri, sarebbe stato quindi logicamente impossibile che il teorema di Hawking fosse violato.”
Guardando al futuro, il materiale a disposizione degli scienziati per ottenere ulteriori conferme non manca: dopo la prima storica rilevazione, negli ultimi anni sono state osservate diverse decine di eventi di onde gravitazionali prodotte dalla fusione tra buchi neri, e in futuro ne arriveranno verosimilmente molti altri, grazie al miglioramento degli strumenti già a disposizione e all’arrivo di quelli di nuova generazione.
“Test di questo tipo diventeranno tanto più accurati quanto più le masse e i momenti angolari dei buchi neri verranno misurati con precisione. Con gli interferometri del futuro, come l’Einstein Telescope e l’osservatorio spaziale LISA, sarà possibile farlo con un’accuratezza almeno 10 volte superiore a quella attuale, rendendo il test dell’area di Hawking efficace oltre il 99 per cento. Al tempo stesso, se il teorema fosse violato anche solo al livello dello 0,1 per cento rispetto alle previsioni della relatività generale, gli interferometri futuri saranno in grado di rilevarlo: diverse teorie alternative prevedono correzioni di quell’ordine e quindi potrebbero essere confermate o rigettate dalle osservazioni”, spiega ancora Pani.
Qualunque cosa si scoprirà, una cosa è certa: la possibilità di verificare questo teorema e altre proprietà dei buchi neri rappresenta una preziosa chiave di accesso ai fenomeni più estremi del cosmo. “La legge dell’area di Hawking è alla base della nostra comprensione dei buchi neri e ha ispirato molte intuizioni brillanti sulle proprietà quantistiche dello spazio-tempo”, conclude Maximiliano Isi. “In futuro, test come questo potranno permetterci di scoprire qualcosa di nuovo sulla natura dell’universo”.