Quando saremo in grado di capire se la prossima eruzione sarà distruttiva?
Se prevedere con precisione tempi e modi di un’eruzione vulcanica è, a oggi, ancora quasi impossibile, appaiono sempre più promettenti gli strumenti che permettono di fare previsioni con un certo margine di sicurezza, soprattutto nei casi in cui i vulcani sono dotati di adeguati sistemi di monitoraggio
di Robin George Andrews/Quanta Magazine
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Sull’isola caraibica di Saint Vincent, lo scorso dicembre dalla cima del vulcano La Soufrière ha iniziato a uscire un flusso di lava viscosa. In un primo momento l’effusione è stata lenta e non ha messo in pericolo nessuno. Poi, tra fine marzo e inizio aprile, il vulcano ha cominciato a emettere onde sismiche associate a magma in ascesa rapida. La vetta emetteva vigorosamente fumi tossici.
Temendo che stesse per arrivare una bomba di magma, gli scienziati hanno dato l’allarme e l’8 aprile il governo ha ordinato l’evacuazione totale della parte settentrionale dell’isola. Il giorno dopo è cominciata un’esplosione catastrofica. L’evacuazione era avvenuta appena in tempo: al momento della stesura di questo articolo non si sono registrate vittime.
Al tempo stesso, ai margini dell’Artide stava accadendo qualcosa di apparentemente simile, ma profondamente diverso.
Sotto la penisola di Reykjanes, in Islanda, da fine 2019 stavano avvenendo terremoti tettonici sempre più intensi: un forte indizio che il sottosuolo si stesse aprendo, dando spazio alla risalita del magma. A inizio 2021, quando un serpente di magma sotterraneo è migrato intorno alla penisola in cerca di una via di uscita verso la superficie, il terreno stesso ha cominciato a cambiare forma. Poi, a metà marzo, la prima di varie crepe ha attraversato la Terra più o meno dove gli scienziati lo ritenevano possibile, riversando lava nella valle disabitata di Geldingadalur
La gente del luogo è subito accorsa in massa verso il punto dell’eruzione, per fare picnic e scattarsi selfie letteralmente a un tiro di schioppo dai flussi lavici. Di recente vi si è svolto anche un concerto, in cui gli spettatori hanno usato i crinali come i sedili di un anfiteatro.
In entrambi i casi gli scienziati non solo hanno indicato correttamente l’arrivo di una nuova eruzione, ma hanno anche previsto le modalità molto diverse in cui sarebbe avvenuta. E se prevedere il “quando” non è mai facile, indovinare il “come” è particolarmente impegnativo, soprattutto nel caso dell’eruzione esplosiva a La Soufrière. “È un lavoro difficile e l’hanno fatto benissimo, davvero alla perfezione”, ha commentato Diana Roman, vulcanologa della Carnegie Institution for Science.
I vulcanologi stanno comprendendo in modo sempre più dettagliato le condizioni che hanno buone probabilità di provocare un’eruzione esplosiva. Tra i fattori determinanti ci sono per esempio la presenza o l’assenza di acqua sotterranea, come anche il contenuto di gas nel magma o la sua viscosità. In una serie di studi recenti, inoltre, i ricercatori hanno indicato come leggere i segnali nascosti – dalle onde sismiche alle osservazioni satellitari – per avere più probabilità di prevedere le modalità esatte dell’eruzione: se sarà un boato o un lamento flebile.
Disastro in arrivo
Come i grattacieli o le cattedrali, sotto l’aspetto architettonico i vulcani della Terra sono estremamente variegati. Alcuni possono essere alti e ripidi, altri molto estesi, con una pendenza leggera e caldere gigantesche del tutto aperte. A volte non c’è nemmeno un vulcano, bensì catene di piccole depressioni o gruppi di crepe che segnano la terra come graffi.
Prevedere le eruzioni comporta molte domande, a partire da: quando? Essenzialmente, è come chiedere quando il magma salirà dal basso attraverso un condotto (il tratto che collega il magma all’apertura in superficie) e uscirà, sotto forma di flusso lavico e cenere, vetro vulcanico e bombe di lava.
Quando il magma sale dal profondo può alterare l’architettura di un vulcano, cambiando letteralmente la forma del terreno soprastante. Le migrazioni di magma inoltre possono spostare le rocce, generando terremoti vulcano-tettonici. E quando diminuisce la pressione che tiene il magma rinchiuso sottoterra, il gas intrappolato si libera e può uscire in superficie.
Per prevedere le eruzioni si cerca almeno uno di questi tre segnali: cambiamenti nella forma di un vulcano, nel suo sistema di onde sismiche o nelle sue emissioni di gas. Se si osservano cambiamenti di tutte e tre i tipi – con una netta differenza dal comportamento abituale del vulcano – allora “senza dubbio sta per succedere qualcosa”, afferma Maurizio Ripepe, geofisico all’Università di Firenze. Spesso quel qualcosa alla fine è un’eruzione.
Un cambiamento non sempre significa un aumento dell’attività. Di solito i vulcani prima di eruttare diventano più rumorosi e irrequieti, ma a volte accade il contrario. In Islanda, per esempio, i sismologi hanno rilevato una diminuzione del tremore vulcanico subito prima che si formassero ciascuna delle prime cinque crepe di Reykjanes. Quando è avvenuto il sesto calo, come ha riferito la sismologa Thorbjörg Ágústsdóttir dell’Iceland GeoSurvey, gli scienziati hanno previsto che stesse per comparire una sesta crepa, e avevano ragione.
Il “come” dell’equazione
Inoltre, si può prevedere sempre più spesso non solo se e quando un vulcano erutterà, ma anche come.
È essenziale ricostruire la storia specifica di ogni vulcano, dato che tendenzialmente ciascuno ha la sua modalità eruttiva particolare. Per scoprirla gli scienziati esaminano gli strati geologici intorno al vulcano, riesumando e analizzando come in un’autopsia i resti di eruzioni antiche. Nella penisola di Reykjanes, in Islanda, l’ultima era avvenuta 800 anni fa, ben prima dell’avvento della scienza moderna. Ma grazie a questa specie di lavoro da detective, gli scienziati sapevano che nella zona le eruzioni sono sempre state relativamente tranquille. Se è disponibile una storia di eruzioni recenti, documentata in tempo reale dagli scienziati, tanto meglio; ecco perché si sapeva che probabilmente l’eruzione effusiva di La Soufrière sarebbe presto diventata esplosiva.
Gli ultimi sviluppi nella previsione delle eruzioni vanno ben oltre queste catalogazioni storiche. Pensiamo allo Stromboli, che emerge appena dall’acqua del Mar Tirreno. Questa isola pittoresca per lo più trascorre il tempo esplodendo: in genere si tratta di piccoli scoppi che non provocano danni. Dopo avere studiato per due decenni i suoi cambiamenti di forma, Ripepe e colleghi hanno appurato che si gonfia appena prima di esplodere. Inoltre, i dettagli del cambiamento di forma rivelano se l’esplosione sarà di piccola o grande entità. Da ottobre 2019 il vulcano è dotato di un sistema di avvertimento anticipato, che riesce a rilevare il tipo di rigonfiamento tipico delle esplosioni più estreme – quelle che in passato hanno provocato vittime – fino a dieci minuti prima che avvengano.
Lo Stromboli però è un vulcano relativamente semplice, in cui il sistema di condotti dal magma al cielo resta pressoché aperto. “Il magma muovendosi non genera fratture – spiega Ripepe – ma si limita a emergere.”
Di solito i vulcani sono più complicati: contengono un’ampia varietà di tipi di magma che devono crearsi una via d’uscita dal vulcano. E perciò provocano eruzioni che “quando avvengono, cambiano molto”, spiega Arianna Soldati, vulcanologa alla North Carolina State University. Nel corso di giorni, settimane, mesi o anni, un’eruzione può alternare effusioni ed esplosioni. Questi cambiamenti sono prevedibili?
Soldati, Roman e colleghi hanno trovato un modo per verificare questa ipotesi osservando l’isola di Hawaii. Il Kilauea, vicino alla costa sud-orientale dell’isola, stava eruttando in continuazione, in un modo o nell’altro, dal 1983. Nella primavera ed estate 2018, però, il vulcano ha dato spettacolo: il lago di lava in cima si è prosciugato, come se qualcuno avesse tolto il tappo da una vasca da bagno; il magma si è fatto strada sottoterra, verso le pendici orientali del vulcano, e ha provocato delle crepe nel terreno da cui è scaturito per tre mesi consecutivi, a volte zampillando verso il cielo sotto forma di grandi fontane di roccia fusa.
Quando è accaduto i ricercatori hanno prelevato campioni di lava, concentrandosi in particolare su una caratteristica: la viscosità. Il magma più viscoso e appiccicoso racchiude più gas, che quando arriva in superficie si decomprime con violenza, generando un’esplosione. Il magma più fluido, al contrario, permette al gas di fuoriuscire gradualmente, come una bevanda gassata lasciata aperta.
Nel 2018 la viscosità della lava sul Kilauea è cambiata continuamente. Il magma più vecchio e freddo era più viscoso, mentre quello appena uscito dalle profondità era più caldo e fluido.
Roman e colleghi hanno scoperto di poter seguire questi cambiamenti monitorando le onde sismiche che emergono dal vulcano e confrontandole con la viscosità variabile della lava prelevata. Per motivi ancora da appurare, quando il magma più fluido sale, si fa largo tra le pareti di roccia spostandole solo leggermente. Il magma più viscoso invece esercita una forza notevole, aprendo una strada più ampia. In un articolo pubblicato lo scorso aprile su “Nature”, i ricercatori hanno dimostrato di poter usare le onde sismiche, che cambiavano a seconda di come si apriva la roccia, per prevedere la variazione di viscosità della lava eruttata con un anticipo di ore o giorni rispetto all’eruzione di quel magma.
“È davvero bellissimo avere trovato qualcosa che ci dice: Sì, se hai questo tipo di sismicità la viscosità è in aumento [e]se è sopra questa soglia potrebbe essere più esplosiva”, osserva Soldati. “Per il monitoraggio e la valitazione dei rischi rischi ci sono adesso effettivamente potenzialità concrete.”
Alterazioni nanoscopiche
La viscosità del magma dipende da molti fattori. Uno in particolare è stato trascurato, soprattutto perché è quasi invisibile.
Danilo Di Genova, esperto di geoscienze all’Università di Bayreuth, in Germania, studia i nanoliti, cioè cristalli grandi circa un centesimo di un normale batterio. Si ritiene che si formino in cima al condotto quando è attraversato dal magma. Se sono in quantità sufficiente, questi cristalli possono chiudere il magma, intrappolare il gas che contiene e aumentarne la viscosità. Ma se non si dispone di microscopi molto potenti con cui osservare la lava appena eruttata, sono impercettibili.
Di Genova si interessa da tempo alla formazione dei nanoliti. I suoi esperimenti con l’olio siliconico – al posto del basalto, un magma fluido molto diffuso – hanno dimostrato che in una miscela di olio e particelle basta che il tre per cento sia costituito da nanoparticelle per aumentare nettamente la viscosità.
Quindi è passato all’originale: con i suoi colleghi ha cercato di simulare ciò che succederebbe al magma se salisse in superficie attraverso un condotto. Hanno sottoposto della roccia basaltica dell’Etna, fusa in laboratorio, a un riscaldamento graduale e a raffreddamenti improvvisi, idratazione e disidratazione. Qualche volta hanno inserito il magma in un sincrotrone, un tipo di acceleratore di particelle, dove potenti raggi X interagiscono con gli atomi di un cristallo per rivelarne le proprietà e – se i cristalli sono abbastanza piccoli – l’esistenza.
Come riferito l’anno scorso su “Science Advances”, gli esperimenti hanno permesso al gruppo di capire come si formano i nanoliti. Se comincia un’eruzione e il magma all’improvviso accelera salendo nel condotto, perde pressione rapidamente. Perciò l’acqua fuoriesce dalla roccia fusa, formando bolle e disidratando il magma.
Questa azione modifica le proprietà termiche del magma, facilitando molto la presenza dei cristalli, perfino a temperature estremamente elevate. Se la salita e la disidratazione del magma sono abbastanza rapide, si forma un’abbondanza di nanoliti, che ne accresce fortemente la viscosità.
Questo cambiamento non produce un segnale evidente. Secondo Di Genova, però, il solo fatto di sapere che esiste potrebbe permettere ai ricercatori di spiegare perché vulcani con un magma solitamente fluido – come il Vesuvio o l’Etna – a volte possano provocare esplosioni straordinarie. I segnali sismici possono indicare la velocità con cui il magma sta salendo, quindi forse si potrebbero usare per prevedere un aumento improvviso del numero di nanoliti, che porterebbe a un’esplosione catastrofica.
Spazzare via la nebbia
A parte questi progressi, gli scienziati sono ancora lontani dall’avere certezze sulle eruzioni, e non solo probabilità.
Un motivo è che “per la maggior parte, i vulcani del mondo non sono monitorati molto bene”, nota Seth Moran, sismologo ricercatore al Cascades Volcano Observatory dello U.S. Geological Survey. Questo comprende molti vulcani nella catena delle Cascate negli Stati Uniti, alcuni dei quali hanno la tendenza a esplosioni gigantesche. “Anche se ci sono in campo strumenti a sufficienza, prevedere un’eruzione non è facile”, commenta Roman. “Ma se non ci sono strumenti sul vulcano, diventa estremamente difficile.”
Un altro problema è che alcune eruzioni non sono precedute da segnali che attualmente si possano identificare con certezza. Un tipo tristemente noto è la cosiddetta esplosione freatica: il magma cuoce sacche di acqua soprastanti e, come in una pentola a pressione, finisce col provocare detonazioni. Una è stata quella del vulcano Whakaari, in Nuova Zelanda, che a dicembre 2019 ha provocato 22 vittime tra i visitatori della piccola isola. Un’altra ha colpito nel 2014 il vulcano Ontake, in Giappone, uccidendo 63 escursionisti.
Uno studio recente diretto da Társilo Girona, geofisico all’Università dell’Alaska a Fairbanks, ha scoperto che i satelliti possono rilevare aumenti graduali, di anno in anno, della radiazione termica emessa da qualsiasi tipo di vulcano prima di un’eruzione. Un’analisi retrospettiva ha mostrato che prima dell’esplosione freatica dell’Ontake nel 2014 è stato rilevato un simile aumento di temperatura, con un picco nel periodo dell’evento.
Forse il monitoraggio dallo spazio diventerà il modo migliore per prevedere le eruzioni freatiche future. Finora però non è stato possibile farne previsioni a lungo termine. Jackie Caplan-Auerbach, vulcanologa e sismologa alla Western Washington University, commenta: “Le eruzioni freatiche sono terribili. Non si riesce proprio a capire che stanno arrivando”.
Le esplosioni non sono l’unica cosa difficile da prevedere. Il 22 maggio di quest’anno il Nyiragongo, un vulcano tra i monti della Repubblica democratica del Congo, ha eruttato all’improvviso, riversando lava in rapido movimento verso la città di Goma. Pur essendo monitorato, il vulcano non aveva dato segnali chiari che stesse per eruttare, e ci sono state varie vittime.
E qualunque sia il tipo di eruzione previsto, un falso positivo ha un prezzo altissimo. “Se si fa evacuare la popolazione e poi non succede niente – spiega Roman – sarà infinitamente più difficile che l’evacuazione successiva sia presa sul serio.”
Eppure ci sono motivi di ottimismo. Gli scienziati conoscono i vulcani sempre meglio, non solo per quanto riguarda le proprietà fisiche comuni a tutti loro, ma anche nei dettagli di ciascuno, grazie a “un misto di istinto, esperienza e conoscenza appresa”, commenta David Pyle, vulcanologo all’Università di Oxford. Prevede che presto avranno un ruolo da protagonisti i programmi ad apprendimento automatico in grado di identificare le tendenze dei dati più velocemente degli esseri umani.
Nella previsione delle eruzioni, la certezza – il se, quando o come – probabilmente non si raggiungerà mai. Ma giorno per giorno la nebbia dell’incertezza, potenzialmente mortale, si dirada un po’ di più, e chi qualche decennio fa sarebbe morto in un’eruzione oggi riesce a vivere.
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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato l’1 giugno 2021 da QuantaMagazine.org, una pubblicazione editoriale indipendente online promossa dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione pubblica della scienza. Traduzione di Lorenzo Lilli, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)