La coltre glaciale della Groenlandia è davvero prossima al collasso?
La fusione della coltre di ghiaccio che la ricopre procede spedita, contribuendo ogni anno a circa un terzo dell’innalzamento del livello dei mari. Gli scienziati stanno cercando di capire quanto manca al superamento del momento in cui potrebbe diventare inarrestabile Un ipotetico concorso chiamato a eleggere il manifesto del cambiamento climatico non potrebbe che incoronare una fotografia dell’Artide: qui l’innalzamento delle temperature è due volte più veloce di qualunque altro luogo della Terra. Gli effetti di questo riscaldamento accelerato non si limitano alla banchisa, la cui estensione nell’ultimo decennio ha fatto registrare un susseguirsi di minimi storici, ma colpiscono con forza anche la calotta della Groenlandia.
La fusione della coltre di ghiaccio che ricopre la più vasta isola del mondo procede spedita e apparentemente inarrestabile, contribuendo ogni anno a circa un terzo dell’innalzamento del livello dei mari. Secondo uno studio coordinato dal glaciologo Jason Brinier dell’Università di Buffalo, e pubblicato su “Nature”, il tasso di perdita di massa osservato tra il 2000 e il 2018 – circa 6100 miliardi di tonnellate ogni secolo – è paragonabile a quelli misurati alla fine dell’ultima era glaciale. Per questa ragione, i ricercatori polari si interrogano sempre più spesso sul fatidico momento in cui la Groenlandia varcherà il punto di non ritorno.
Un ghiacciaio può mantenere le sue dimensioni solo se la perdita di massa dovuta alla fusione e al distacco di iceberg viene bilanciata dalle precipitazioni nevose. Se la fusione della calotta artica dovesse superare una certa soglia, definita tecnicamente come un “punto critico”, potrebbe risultare irrimediabilmente destabilizzata.
Sfortunatamente, la complessità dei sistemi naturali rende maledettamente difficile la previsione di un punto critico futuro. Sebbene gli attuali modelli climatici siano inadeguati, alcune ricerche basate sulla teoria della dinamica non lineare suggeriscono che sia possibile individuare segnali precursori di un punto critico associati a un rallentamento del comportamento dinamico del sistema in questione.
In uno studio pubblicato sui “Proceedings of the National Academoes of Sciences”, il fisico Niklas Boers dell’Istituto di ricerca sull’impatto climatico di Potsdam e il matematico Martin Rypdal dell’Università artica della Norvegia a Tromsø, applicano questo metodo ai tassi di fusione degli ultimi 140 anni del ghiacciaio Jakobshavn/Sermeq Kujalleq.
Questo vasto ghiacciaio di sbocco, situato nella Groenlandia centro-occidentale, è naturalmente caratterizzato da uno scorrimento molto rapido – nell’ordine di alcune decine di metri al giorno – che nell’ultimo decennio ha accelerato ulteriormente. Lo studio si concentra su uno degli elementi cruciali che governano la dinamica della calotta artica cioè il meccanismo positivo di retroazione tra fusione e spessore del ghiaccio.
In altri termini, è il proverbiale cane che si morde la coda: la fusione del ghiaccio provoca l’abbassamento della calotta che espone il ghiaccio all’aria più calda delle altitudini minori che a sua volta accelera la fusione. Superato il punto critico, il processo diventa praticamente irreversibile: affinché la calotta glaciale riacquisti le sue dimensioni originali servirebbe un clima molto più freddo. Un’ipotesi improbabile, almeno nel breve periodo, considerata l’inerzia del cambiamento climatico.
Consci di ciò, Boers e Rypdal hanno scelto come parametro di riferimento lo spessore della calotta in modo da maneggiare un indicatore facilmente misurabile – più del tasso di fusione – della transizione di fase associata al punto critico. Le loro analisi confermano che il ghiacciaio Jakobshavn ha già imboccato la strada che porta all’instabilità e dunque nel prossimo futuro c’è da aspettarsi una fusione sempre più rapida. Anche se i risultati riguardano solo il ghiacciaio Jakobshavn, lo studio è indicativo dell’evoluzione dell’intera calotta poiché questo ghiacciaio è considerato, per dimensioni e vulnerabilità, la sentinella della Groenlandia.
Quanto all’ubicazione del punto critico, in un’intervista rilasciata al quotidiano britannico “The Guardian” Boers ha affermato che “le dinamiche della calotta glaciale della Groenlandia sono molto complesse. Usare le conoscenze incomplete di oggi per stimare una data precisa darebbe un falso senso di certezza”. Ulteriori indagini dovranno dunque stabilire quanto sia lontano il punto critico, sempre che non sia già stato superato. E tenere conto di altri meccanismi di feedback, sia con effetti di stabilizzazione che di destabilizzazione, come la diminuzione dell’albedo dovuta alla perdita della copertura di ghiaccio o l’aumento delle nevicate dovuto all’aumento delle temperature.
“Negli ultimi anni abbiamo iniziato a indagare l’intricata rete di processi che governano il sistema Groenlandia, considerando non solo l’effetto dell’aumento delle temperature ma anche altri fenomeni come l’alterazione della circolazione dell’atmosfera e delle correnti marine”, commenta Marco Tedesco, scienziato polare della Columbia University, invitando alla prudenza nel voler indicare a tutti i costi una data di scadenza della calotta: “È vero, la fusione non procede in maniera lineare ma sta accelerando. Al contempo, la circolazione atmosferica cambia, il livello del mare cresce, le acque diventano più dolci e le correnti oceaniche si alterano. Le incognite sono davvero tante: da oggi ai prossimi cinquant’anni le proiezioni potrebbero cambiare anche drasticamente”.
Ad aggiungere ulteriore complessità allo scenario, sul destino della Groenlandia aleggia l’ombra lunga degli antipodi. “Ciò che sta accadendo nell’Artide lo conosciamo fin troppo bene mentre non possiamo dire lo stesso dell’Antartide. Le calotte polari sono reciprocamente connesse attraverso la circolazione atmosferica e oceanica globale: non ci sono dubbi che presto o tardi l’Antartide reagirà. La vera domanda è quando, dove e come succederà”, ragiona Tedesco. Qualora l’intera calotta della Groenlandia dovesse fondere, il livello medio del mare si innalzerebbe di sette metri rispetto al valore attuale. Un’enormità, che tuttavia si prefigura come un nulla in confronto all’ipotesi, fortunatamente remota, che sia l’Antartide a squagliare. In questo caso, il mare schizzerebbe a oltre 60 metri di altezza.
Le interazioni climatiche tra i due poli si riflettono curiosamente anche nelle tempistiche delle pubblicazioni scientifiche. Due settimane prima dello studio sul punto critico della Groenlandia, un gruppo di ricercatori coordinati dal climatologo Robert DeConto dell’Università del Massachusetts ad Amherst ha annunciato su “Nature” che, qualora gli obiettivi dell’accordo di Parigi non venissero rispettati, la fusione della calotta dell’Antartide occidentale subirebbe una drastica e non trascurabile perdita di massa – almeno per l’orizzonte della nostra specie – entro il 2060.
A differenza dell’innovativo approccio di Boers e Rypdal, lo studio antartico si basa su modelli previsionali più tradizionali, basati sulla fisica delle calotte. Secondo gli autori, al di sopra di 2 °C di riscaldamento, l’Antartide subirà un brusco aumento della perdita di ghiaccio, concentrata soprattutto nel grande ghiacciaio Thwaites, nell’Antartide occidentale. “Sebbene negli ultimi anni le rilevazioni satellitari agevolino il compito, stilare i bilanci di massa delle lingue glaciali è estremamente complesso. Di certo, rispetto alla calotta della Groenlandia, quelle dell’Antartide hanno una maggiore resistenza”, premette Andrea Spolaor, ricercatore dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR).
L’anatomia delle due calotte antartiche è però ben diversa, come diversa è la loro vulnerabilità al cambiamento climatico. Quella dell’Antartide orientale, vero gigante del nostro pianeta, poggia quasi interamente sulla terraferma ed è molto più alta e spessa. La più modesta calotta dell’Antartide occidentale – che sigilla un grande arcipelago a cui appartiene anche la Penisola antartica – raggiunge altitudini minori e dunque è caratterizzata da un freddo meno rigido rispetto alla calotta orientale. Ma soprattutto il suo basamento giace al di sotto del livello medio del mare. L’innalzamento del livello del medio mare e la penetrazione di acque più calde al di sotto della piattaforma della calotta contribuiscono alla lubrificazione e allo scorrimento delle lingue glaciali che si protendono in mare.
“Immaginiamo che la calotta sia un budino che viene schiacciato con la mano: il centro si appiattisce mentre i bordi scivolano rapidamente in avanti. Più il piatto è scivoloso, più velocemente scorrerà il budino”, esemplifica Spolaor. Se il ghiaccio marino diminuisce a causa del cambiamento climatico, l’ostacolo allo scorrimento viene a mancare. “C’è da dire che una maggiore fusione comporta la diminuzione della salinità dell’acqua del mare, che dunque congela a temperature più alte e forma nuovo ghiaccio marino”, chiarisce il ricercatore, sottolineando l’interdipendenza dei numerosi meccanismi che regolano il sistema. La partita per comprenderli nel dettaglio è iniziata. La speranza è che il fischio finale non giunga a giochi già fatti.