Gli oceani sono febbricitanti: un altro effetto proccupante della crisi climatica

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Gli oceani sono febbricitanti: un altro effetto proccupante della crisi climatica

Negli ultimi decenni sono aumentate in frequenza e intensità le improvvise ondate di caldo marine che possono devastare gli ecosistemi. Diventa allora sempre più urgente definire modelli che permettano di prevedere questi eventi
di Giuliana Viglione/Nature
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Dieci anni fa, sulle spiagge dell’Australia occidentale hanno cominciato ad arenarsi pesci morti. Il colpevole era un’enorme distesa di acqua insolitamente calda che aveva devastato le foreste di alghe brune e decine di creature marine, importanti sotto l’aspetto commerciale: dalle orecchie di mare alle capesante, fino agli astici. Nelle settimane seguenti alcuni tra i vivai più redditizi dell’Australia occidentale hanno rischiato di scomparire. A tutt’oggi, qualcuno non si è ripreso.

In seguito alla crisi, alcuni scienziati hanno collaborato per valutare i danni e cercare di capire che cosa avesse provocato quel riscaldamento insolito. “Questo evento ha avuto conseguenze davvero devastanti per gli ecosistemi marini”, commenta Jessica Benthuysen, oceanografa fisica all’Australian Institute of Marine Science di Perth.

Dopo quell’evento i ricercatori hanno osservato decine di periodi caldi analoghi nelle regioni oceaniche di tutto il mondo, dando loro un nome: ondate di caldo marine. Anche se gli scienziati hanno ideato modi differenti per definire questi eventi, per lo più concordano sul fatto che comportino periodi caldi nelle acque superficiali dell’oceano, con una durata di almeno cinque giorni e una temperatura nettamente superiore alla norma.

Se il riscaldamento globale arriva nelle profondità oceaniche

Gli effetti delle ondate di caldo marine possono ripercuotersi sulla catena alimentare, afferma Pippa Moore, esperta di ecologia delle comunità marine all’Università di Newcastle, nel Regno Unito. Durante un’ondata di caldo marina soprannominata “il Blob”, avvenuta nel Pacifico nord-occidentale nel periodo 2013-2016, l’acqua calda e povera di sostanze nutritive ha stroncato la crescita del fitoplancton. Quindi la popolazione di salmoni reali (Oncorhynchus tshawytscha) è crollata e nel Golfo dell’Alaska sono morti addirittura un milione di uccelli marini. Negli ultimi decenni, inoltre, le ondate di caldo marine hanno provocato un massiccio sbiancamento delle barriere coralline in tutto il mondo.

Come il corrispondente fenomeno nell’atmosfera, le ondate di caldo marine stanno peggiorando: il cambiamento climatico ne sta aumentando la frequenza e la durata, oltre a spingerle fino a temperature più alte. Tutto questo rende ancora più importante capirne i motivi e imparare a prevederle.

Queste previsioni aiuterebbero i gestori dei vivai a decidere se limitare la produzione o perfino interrompere del tutto la pesca in alcune aree. Per adesso i metodi di previsione sono ancora agli esordi. Ma con nuovi set di dati osservazionali, modelli in continuo miglioramento e un’attenzione globale rivolta a comprendere il fenomeno, gli scienziati sperano che nei prossimi anni si riesca a fare previsioni nettamente migliori.

Uno dei tanti piccoli di leone marino gravemente denutriti per lo spostamento verso nord dei banchi di pesce in seguito all’ondata di calore marino conosciuta come “The Blob” che fra il 2013 e il 2016 ha colpito le coste della California meridionale (© Jim Milbury/NOAA Fisheries)

Secondo i ricercatori potrebbero essere un successo notevole perché l’oceano offre centinaia di miliardi di dollari in risorse alimentari e di altro tipo, in gran parte minacciate dalle ondate di caldo marine. “Dobbiamo proprio capire quando e dove si verificheranno questi eventi”, commenta Hillary Scannell, oceanografa fisica al Lamont–Doherty Earth Observatory della Columbia University a Palisades. E aggiunge che così si aiuteranno le società a programmare il da farsi quando le ondate di caldo marine saranno imminenti.

Sotto pressione

In Brasile l’estate 2013-2014 è stata difficile: una grave siccità ha devastato le coltivazioni e provocato carenza di acqua a San Paolo. Al tempo stesso l’oceano si stava riscaldando e le concentrazioni di clorofilla – un parametro della produttività biologica – erano in netto calo. Quando ha cominciato a scavare nei dati, Regina Rodrigues, oceanografa fisica all’Università federale di Santa Catarina a Florianópolis, ha scoperto che la siccità e il riscaldamento dell’oceano avevano in comune una causa: un sistema atmosferico di alta pressione che per gran parte dell’estate si era soffermato sopra le regioni sud-orientali del paese.

Questo tipo di sistema di alta pressione di lunga durata è collegato a un fenomeno detto blocco atmosferico ed è tra le cause più frequenti delle ondate di caldo marine, così come di quelle sulla terraferma. Un blocco atmosferico provoca una scarsa nuvolosità e venti relativamente deboli. La carenza di nuvole aumenta la quantità di radiazione solare che raggiunge l’oceano e lo riscalda; al tempo stesso l’aria ferma impedisce all’acqua di mescolarsi ed evaporare. Tutti questi fattori possono provocare un accumulo di calore nella parte superiore dell’oceano, che a sua volta può modificare l’andamento dei venti, intensificando o prolungando il riscaldamento.

Una barriera corallina prima e dopo un’intensa ondata di calore marino (© The Ocean Agency/Ocean Image Bank)

In uno studio pubblicato nel 2019, Rodrigues e il suo gruppo hanno scoperto che circa il 60 per cento delle ondate di caldo marine nel sud-ovest dell’Oceano Atlantico – compreso l’evento del 2013-2014 – è stato provocato da sistemi di alta pressione che hanno avuto origine in qualche punto sopra l’Oceano Indiano, distante migliaia di chilometri. Questi sistemi si sono poi spostati nell’atmosfera verso il Sud America. Ma data la quantità di fattori che influiscono sul blocco atmosferico, è difficile ricreare con un modello numerico questo fenomeno. “Dipende da così tanti aspetti del sistema climatico che è davvero difficile ricostruirlo correttamente”, spiega Rodrigues.

Queste regioni apparentemente scollegate e lontane tra loro sono legate dalle cosiddette teleconnessioni atmosferiche. Per spiegare di che cosa si tratta Rodrigues fa l’esempio di un sasso lanciato in un lago, che forma increspature sempre più estese. Nel suo studio ha scoperto che in genere questo processo comincia quando l’aria vicina alla superficie della Terra si riscalda e sale. La convezione sopra l’Oceano Indiano – continua Rodrigues – penetra nell’atmosfera, provocando onde atmosferiche che arrivano in Sud America e causano un’ondata di caldo marina. Questa interconnessione del sistema climatico complica le previsioni. Invece di limitarsi a realizzare un modello della piccola e specifica regione di oceano interessata, i ricercatori devono considerare processi su scala mondiale.

Esaminare le condizioni climatiche che portano a un’ondata di caldo marina è un processo minuzioso, spiega Robert Schlegel, data scientist all’osservatorio oceanologico della Sorbonne Université a Villefranche-sur-Mer, in Francia. Schlegel è tra i ricercatori che applicano metodi statistici e di apprendimento automatico per cercare di capire le cause principali delle ondate di caldo negli oceani.

Cause profonde

A volte le cause di un’ondata di caldo marina si nascondono nell’oceano stesso. È il caso per esempio dell’evento al largo dell’Australia occidentale, quando la corrente Leeuwin, diretta verso sud, si è rafforzata. Intensificandosi, la corrente ha portato dall’Oceano Indiano più acqua calda del solito, colpendo con un’ondata di caldo durata mesi centinaia di chilometri di costa.

Nel 2015-2016 un andamento simile ha provocato un’ondata di caldo nel Mare di Tasman, tra Australia e Nuova Zelanda, che ha stabilito dei record per quella parte dell’oceano quanto a durata e intensità. Uno studio del 2017 ha ricondotto quell’evento a un rafforzamento della corrente dell’Australia orientale, che porta acque tropicali calde verso le coste di quei paesi. Come spiega un autore della ricerca, Neil Holbrook, oceanografo e climatologo all’Università della Tasmania, questi eventi possono penetrare molto più in profondità nell’oceano quando le loro cause, invece che nell’atmosfera, risiedono nell’oceano stesso.

Questi eventi più profondi pongono i climatologi di fronte a una difficoltà particolare. Quasi tutte le conoscenze attuali sulle ondate di caldo marine si limitano a quanto accade sulla superficie dell’oceano, dove i ricercatori possono mappare la temperatura e sorvegliare gli eventi pressoché in tempo reale grazie a strumenti satellitari. Sotto la superficie però si trova un mondo di correnti complesse. “Siamo in grado di vedere e definire l’ondata di caldo in superficie”, spiega Sofia Darmaraki, oceanografa fisica alla Dalhousie University ad Halifax, in Canada. “Ma rispetto all’ondata di caldo marina, la superficie è solo la punta dell’iceberg.”

La temperatura media mensile della superficie del mare nel maggio 2015, quando una grande massa di acqua oceanica insolitamente calda nota come “The Blob” ha dominato il Pacifico settentrionale. I colori corrispondono alla deviazione, in gradi Celsius, rispetto alla media (© NASA Physical Oceanography Distributed Active Archive Center)

Le reti di osservazione che sorvegliano le condizioni sotto la superficie sono relativamente poche. In alcune regioni i dati provengono da galleggianti e boe, che però in altre sono assenti. Capire come si sviluppano, persistono e si evolvono le anomalie termiche sotto la superficie è tra le maggiori sfide ancora aperte nella ricerca sulle ondate di caldo marine. E dato che gli abitanti dell’oceano si trovano per la massima parte sotto la superficie, è essenziale che gli scienziati esplorino questa frontiera, spiega Scannell: “Non abbiamo capito fino in fondo che impatto abbiano sugli ecosistemi le ondate di caldo marine sotto la superficie.”

In Australia Benthuysen e altri ricercatori stanno cercando di colmare almeno in parte queste lacune con una strategia detta campionamento basato sugli eventi. L’Integrated Marine Observing System (IMOS) nazionale e i suoi partner dispongono di una flotta di alianti sottomarini – veicoli subacquei telecomandati – che restano in attesa. Quando si forma un’ondata di caldo marina il gruppo dell’IMOS può mobilitarsi velocemente per portare in acqua gli alianti con cui raccogliere dati essenziali su temperatura e salinità.

Un test è avvenuto verso l’inizio di quest’anno, quando le acque al largo dell’Australia occidentale hanno ricominciato a scaldarsi. I ricercatori hanno usato un aliante per sorvegliare lo sviluppo di quella che si è dimostrata la più forte ondata di caldo marina avvenuta in quella parte di oceano dopo l’evento catastrofico di un decennio prima. L’aliante ha nuotato per oltre 500 chilometri, rilevando il raffreddamento provocato da un ciclone tropicale che ha colpito le acque all’inizio di febbraio. A marzo e aprile il gruppo ha usato altri due alianti al largo della costa della Tasmania per contribuire a mappare l’entità di un’ondata di caldo persistente nel Mare di Tasman. I due hanno rivelato che le anomalie della temperatura erano maggiori in profondità che sulla superficie dell’oceano.

Secondo i ricercatori, i dati raccolti da questi alianti potrebbero contribuire a migliorare i risultati dei modelli di previsione dinamici che simulano le condizioni fisiche dei processi in corso nell’oceano e nell’atmosfera. “Raccogliere dati pressoché in tempo reale e assicurare che possano essere acquisiti in modelli a breve termine – spiega Benthuysen – è senza dubbio un modo molto promettente di aiutare a prendere decisioni e comunicare ciò che potrebbe accadere.”

Previsioni limitate

In tutto il mondo attualmente non è possibile prevedere le condizioni estreme con molto anticipo, spiega Alex Sen Gupta, climatologo e oceanografo all’Università del Nuovo Galles del Sud a Sydney. “La scienza delle previsioni oceaniche è molto indietro rispetto a quella delle previsioni meteorologiche.”

Alcuni modelli – aggiunge Sen Gupta – possono riuscire a prevedere un evento singolare con un anticipo di qualche giorno o una settimana. Ma se si va oltre, la natura caotica del sistema climatico ostacola la previsione dei singoli eventi. E per molti soggetti interessati i modelli attuali non sono abbastanza sofisticati, o non hanno una risoluzione sufficiente, per offrire informazioni utili a prendere le decisioni necessarie per prepararsi a una potenziale ondata di caldo.

Jahson Alemu I, ecologo marino alla National University di Singapore, osserva che la risoluzione dei modelli predittivi attuali non è molto più piccola dell’isola di Tobago. Perciò è difficile sia prendere decisioni sia comunicare i rischi al pubblico, aggiunge Alemu I, che dirige anche SpeSeas, un’organizzazione non governativa che si occupa di problemi del mare ai Caraibi.

Variazione del contenuto di calore dello strato superiore (0-2000 metri) degli oceani di tutto il mondo dal 1958 al 2015. Ogni barra mostra la media annuale relativa a una linea di base 1981-2010 (© Lijing Cheng)

Attualmente, per avere un’idea della probabilità che in un determinato periodo si verifichi un’ondata di caldo, i ricercatori per lo più si affidano a modelli statistici basati sulle tendenze passate. Questi modelli però sono una specie di soluzione provvisoria finché i modelli dinamici non saranno abbastanza sofisticati da prevedere gli eventi. “I metodi statistici si basano sull’idea che le tendenze viste in passato si ripetano”, spiega Alistair Hobday, scienziato marino alla Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO) a Hobart, in Australia. In un mondo con un clima in rapido cambiamento – continua – questi modelli cominceranno a non funzionare più: “Il modello da applicare è quello dinamico”.

Alla CSIRO Hobday dirige un progetto per prevedere le ondate di caldo marine. A dicembre il gruppo ha pubblicato la sua prima previsione statistica, creata con tecniche di apprendimento automatico, che ha esaminato sia i dati storici sia i modelli delle temperature marine superficiali e della quantità di calore accumulata nello strato superiore dell’oceano. La previsione ha avvertito di una molto probabile ondata di caldo marina al largo della costa dell’Australia occidentale tra gennaio e aprile.

In effetti, all’inizio dell’anno le temperature al largo sono salite fino a livelli anormali. Hobday spiega che la previsione statistica di quest’anno è stata una sorta di prova di concetto: il gruppo ha scelto deliberatamente una regione ampia e un tempo lungo in cui ci si potesse aspettare un’ondata di caldo. Ma per l’anno prossimo, il suo gruppo ha in programma di eseguire una previsione dinamica per la regione, che permetterà di osservare in modo più dettagliato i rischi di ondate di caldo marine.

Un futuro peggiore

Sulle ondate di caldo marine c’è una previsione di cui i climatologi si sentono sicuri: gli eventi saranno intensificati e aggravati dal cambiamento climatico. Dato che si continua a emettere gas serra nell’atmosfera, secondo le proiezioni dei modelli climatici le temperature globali in aumento aggraveranno le ondate di caldo marine sotto quasi ogni aspetto. Holbrook commenta: “Si prevede che con il riscaldamento globale, le condizioni estreme aumenteranno. Le cose sono destinate a peggiorare”.

Alcuni di questi cambiamenti sono già in corso. Tra il 1925 e il 2016, in tutto il mondo il numero dei giorni in un anno con ondate di caldo marine è aumentato di oltre il 50 per cento. E dal 1982, cioè da quando sono disponibili dati satellitari, le ondate di caldo marine sono aumentate di intensità in quasi due terzi dell’oceano. Inoltre gli scienziati prevedono che queste tendenze continueranno: vari studi hanno indicato che nei prossimi anni, anche in caso di riscaldamento moderato, gli oceani subiranno quasi dappertutto ondate di caldo marine più lunghe e frequenti.

2018, record del riscaldamento degli oceani

Anche molti degli eventi estremi degli ultimi decenni sono stati aggravati dal cambiamento climatico. Uno studio del 2020 che ha esaminato sette tra le ondate di caldo marine di maggior impatto dal 1981, ha dedotto che tutte tranne una erano dovute, almeno parzialmente, al riscaldamento antropogenico. I ricercatori hanno confrontato le simulazioni dei modelli climatici basati su una concentrazione atmosferica di anidride carbonica a livelli preindustriali con modelli basati sui suoi valori attuali.

I risultati hanno indicato che alcuni degli eventi sono stati così forti da poter essere attribuiti interamente al cambiamento climatico antropogenico, spiega Charlotte Laufkötter, climatologa all’Università di Berna, in Svizzera, che ha diretto quella ricerca. “In epoca preindustriale non sarebbero stati possibili.”

Secondo le proiezioni degli scienziati, nel corso del prossimo secolo gran parte dell’oceano avrà superato la soglia di temperatura che definisce questi eventi, e molte parti del mondo arriveranno a uno stato di ondata di caldo marina permanente. “Con un riscaldamento così forte – commenta Laufkötter – non è più un evento estremo. È una costante.”

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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Nature” il 5 maggio 2021. Traduzione di Lorenzo Lilli, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

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