Ecco come i Neanderthal e altri antichi umani impararono a contare
Da alcune scoperte archeologiche sembra che gli esseri umani abbiano sviluppato l’uso dei numeri decine di migliaia di anni fa. Oggi i ricercatori stanno indagando le prime ipotesi dettagliate sull’origine di quell’invenzione rivoluzionaria
di Colin Barras/Nature
www.lescienze.it
Circa 60.000 anni fa, in quella che oggi è la Francia occidentale, un Neanderthal prese in mano un pezzo di femore di iena delle caverne e un utensile di pietra e si mise al lavoro. Quando ebbe finito, l’osso aveva nove tacche sorprendentemente simili e più o meno parallele tra loro, come se dovessero significare qualcosa.
Francesco d’Errico, archeologo all’Università di Bordeaux, in Francia, ha una sua idea a proposito di quei segni. Nella sua carriera ha esaminato molti manufatti antichi e ritiene che quell’osso di iena (scoperto negli anni settanta nel sito di Les Pradelles, nei pressi di Angoulême) sia insolito e diverso dagli altri. I manufatti antichi intagliati sono spesso interpretati come opere d’arte, invece l’osso di Les Pradelles sembra aver avuto un ruolo più funzionale, secondo D’Errico.
L’archeologo sostiene che quell’osso potrebbe codificare informazioni numeriche. E se così fosse significherebbe che gli esseri umani anatomicamente moderni non furono gli unici a sviluppare un sistema di numerazione: è possibile che avessero iniziato a farlo anche i Neanderthal.
Quando ha pubblicato le sue idee nel 2018, D’Errico si stava avventurando su un territorio esplorato da pochissimi altri scienziati prima di lui: quello delle radici antiche dei numeri. “L’origine dei numeri è una nicchia ancora relativamente vuota nella ricerca scientifica”, commenta Russell Gray, biologo evoluzionista al Max-Planck-Institut per l’antropologia evolutiva di Lipsia, in Germania. A volte i ricercatori non sono neanche d’accordo su che cosa siano i numeri, anche se uno studio del 2017 li ha definiti come entità discrete con valori esatti rappresentate da simboli in forma di parole e segni.
Oggi l’origine dei numeri attira sempre di più l’attenzione e ricercatori di molti settori diversi affrontano il problema da varie prospettive.
Psicologi, antropologi ed esperti di scienze cognitive osservano le culture contemporanee per comprendere le differenze tra i sistemi numerici esistenti, definiti come i simboli che una società usa per contare e per maneggiare i numeri. Nelle pieghe dei sistemi moderni sperano di trovare informazioni nascoste che possano gettare luce su alcuni dettagli delle loro origini. Intanto, gli archeologi hanno iniziato a cercare prove a proposito degli antichi sistemi di numerazione e i biologi evoluzionisti che si interessano al linguaggio stanno esplorando le origini profonde dei nomi dei numeri. Questi studi hanno portato i ricercatori a formulare alcune delle prime ipotesi dettagliate sullo sviluppo preistorico dei sistemi numerici.
Ora un nuovo afflusso di fondi stimolerà ulteriormente gli studi in questo campo. Quest’anno un gruppo di ricerca internazionale sovvenzionato dal Consiglio europeo per la ricerca con un finanziamento di dieci milioni di euro inizierà a mettere alla prova varie ipotesi, nel quadro di un programma più ampio che vuole studiare come, quando e perché abbiano avuto origine e si siano diffusi nel mondo i sistemi numerici. Il progetto, chiamato Evolution of Cognitive Tools for Quantification (QUANTA), potrebbe anche chiarire, almeno in parte, se i sistemi di numerazione siano un’esclusiva degli esseri umani anatomicamente moderni, oppure se sia possibile che fossero presenti in forma primitiva anche nei Neanderthal.
Un istinto per i numeri
Un tempo si pensava che l’essere umano fosse l’unica specie ad avere il senso della quantità, ma vari studi a partire dalla metà del XX secolo hanno rivelato che molti altri animali condividono questa capacità. Per esempio, pesci, api e pulcini appena nati sono capaci di riconoscere immediatamente fino a quattro elementi, una capacità definita subitizing. Alcuni animali sono capaci anche di “discriminazione di grandi quantità”: riescono a distinguere la differenza tra due grandi quantità, purché questa differenza sia abbastanza marcata. Gli animali che hanno questa capacità sono in grado, per esempio, di distinguere tra 10 oggetti e 20 oggetti, ma non tra 20 e 21. I bambini di sei mesi esibiscono una capacità simile di valutare la quantità, anche senza essere stati esposti in modo significativo alla cultura o al linguaggio umano.
Secondo Andreas Nieder, neuroscienziato all’Università di Tubinga in Germania, tutto questo suggerisce che gli esseri umani abbiano una capacità innata di valutare i numeri. Questa capacità è emersa da processi evolutivi come la selezione naturale, aggiunge il ricercatore, perché apportava vantaggi adattativi.
Altri danno un’interpretazione diversa delle prove. Rafael Núñez, ricercatore di scienze cognitive all’Università della California a San Diego e uno dei responsabili del progetto QUANTA, concorda che molti animali possano avere una capacità innata di valutare le quantità, però sostiene che la percezione umana dei numeri è in genere molto più complessa e non può aver avuto origine da un processo come quello della selezione naturale. Al contrario, molti aspetti dei numeri, come le parole nella lingua parlata e i segni scritti usati per rappresentarli, devono essere il prodotto dell’evoluzione culturale, un processo in cui gli individui apprendono una nuova capacità (per esempio come usare un utensile) per imitazione o attraverso l’istruzione formale.
Anche se molti animali sono dotati di cultura, una cultura che comprenda l’uso di numeri è praticamente esclusiva degli esseri umani. Ad alcuni scimpanzé in cattività è stato insegnato a usare simboli astratti per rappresentare determinate quantità, ma né gli scimpanzé né alcuna altra specie non umana fa uso di simboli del genere nel mondo naturale. Núñez sostiene quindi che si dovrebbe distinguere tra quella che lui definisce cognizione “quantitativa” innata, presente negli animali, e cognizione “numerica” appresa, presente negli esseri umani.
Ma non tutti sono d’accordo. Nieder sostiene che gli studi neurologici mostrano chiare analogie tra il modo in cui le quantità sono elaborate nel cervello degli animali diversi dagli esseri umani e il modo in cui il cervello umano elabora i numeri. Il neuroscienziato afferma che è fuorviante tracciare una linea di divisione troppo netta tra i due comportamenti, anche se concorda che le capacità numeriche umane siano molto più avanzate di quelle di qualsiasi altro animale. “Nessun animale [non umano]è davvero capace di rappresentare i numeri attraverso simboli”, commenta.
Lo studio di D’Errico sull’osso di Les Pradelles potrebbe contribuire a gettare luce sul modo in cui i numeri presero forma nelle primissime fasi. L’archeologo ha analizzato le nove tacche al microscopio e sostiene che sono talmente simili per forma, profondità e altri dettagli che sembrano essere state fatte con lo stesso utensile in pietra tenuto sempre nello stesso modo. Ciò spinge a ritenere che furono incise tutte dalla stessa persona in un’unica sessione, magari nel giro di qualche minuto o di qualche ora. (In un altro momento, sull’osso furono fatti anche altri otto segni molto meno profondi.)
Tuttavia D’Errico non ritiene che la persona in questione intendesse creare un motivo decorativo, perché le tacche non sono regolari. Per un raffronto ha analizzato le sette tacche su un osso di corvo risalente a 40.000 anni fa e scoperto in un sito in Crimea che fu abitato dai Neanderthal. L’analisi statistica dimostra che le tacche su quest’osso sono distanziate con una regolarità simile a quella che si ottiene quando si dà un osso dello stesso tipo a volontari moderni e si chiede loro di incidere tacche a distanza regolare.
La stessa analisi dimostra però che le tacche incise sull’osso di Les Pradelles non presentano la stessa regolarità. Questa osservazione, unita al fatto che tutte le tacche erano state incise in una sola sessione, ha portato D’Errico a ritenere che l’osso potesse avere un uso puramente funzionale, come registrazione di informazioni numeriche.
Segni di complessità cognitiva
L’osso di Les Pradelles non è una scoperta isolata. Per esempio, durante gli scavi alla Border Cave, in Sudafrica, gli archeologi hanno scoperto un perone di babbuino risalente a circa 42.000 anni fa, anch’esso segnato con alcune tacche. D’Errico sospetta che gli esseri umani anatomicamente moderni che all’epoca vivevano in loco lo usassero per registrare informazioni numeriche. In questo caso l’analisi delle 29 tacche al microscopio suggerisce che siano state intagliate con quattro attrezzi diversi e quindi rappresentino quattro conteggi separati, che secondo l’archeologo sarebbero avvenuti in quattro momenti diversi. Inoltre D’Errico afferma che le scoperte fatte negli ultimi 20 anni dimostrano che gli esseri umani antichi iniziarono a produrre incisioni astratte (che suggeriscono la presenza di capacità cognitive complesse) centinaia di migliaia di anni prima di quanto si ritenesse in precedenza.
Alla luce di queste scoperte l’archeologo ha elaborato uno scenario per spiegare come alcuni sistemi numerici siano potuti nascere proprio nell’atto della produzione di questi manufatti. Oltre alla sua, c’è solo un’altra ipotesi già pubblicata sull’origine preistorica dei numeri.
Tutto avvenne per caso, ipotizza D’Errico, quando i primi ominini lasciarono accidentalmente dei segni sulle ossa degli animali che macellavano. In seguito gli ominini fecero un salto cognitivo quando si accorsero che potevano incidere deliberatamente le ossa per creare disegni astratti, come quelli che si vedono su una conchiglia di circa 430.000 anni fa rinvenuta a Trinil, in Indonesia. Più tardi, in un momento non meglio definito, avvenne un altro salto in avanti: le singole incisioni iniziarono a essere rivestite di significato e alcune poterono iniziare a codificare informazioni numeriche. L’osso di iena di Les Pradelles è forse il più antico esempio noto di questo tipo di segni, sostiene D’Errico, secondo il quale ulteriori salti cognitivi, che lui chiama esaptazioni culturali, portarono infine da quelle tacche all’invenzione di segni per i numeri come 1, 2 e 3.
D’Errico riconosce che ci sono lacune in questo scenario. Non è chiaro quali fattori culturali o sociali possano aver incoraggiato gli antichi ominini a iniziare a creare deliberatamente incisioni su ossa o altri manufatti o, più tardi, a sfruttare quei segni per registrare informazioni numeriche. Il progetto QUANTA userà dati provenienti da antropologia, scienze cognitive, linguistica e archeologia per comprendere meglio quei fattori sociali, continua l’archeologo, che è uno dei quattro ricercatori principali.
Le ossa della discordia
Tuttavia Núñez, che è ricercatore di QUANTA, e altri ricercatori non coinvolti nel progetto fanno notare che manufatti antichi come l’osso di Les Pradelles sono difficili da interpretare. Karenleigh Overmann, archeologa cognitiva all’Università del Colorado a Colorado Springs, sottolinea questa difficoltà citando l’esempio dei message stick (bastoni del messaggio) usati dagli aborigeni australiani. Questi bastoni, di solito formati da pezzi di legno piatti o cilindrici, sono decorati con tacche che possono sembrare la codifica di un’informazione numerica, ma che spesso non lo sono.
Piers Kelly, antropologo linguistico all’Università del New England ad Armidale, in Australia, e autore di una rassegna della letteratura sui message stick, concorda con l’obiezione di Overmann e afferma che alcuni di quei bastoni riportano segni che sembrano il conteggio di qualcosa, ma spesso servono invece da promemoria visivo per aiutare il messaggero a non dimenticare i dettagli del messaggio. “Portano alla mente l’atto di narrare una storia, piuttosto che quello di misurare una quantità”, spiega Kelly.
Wunyungar, un aborigeno australiano che fa parte delle comunità Gooreng Gooreng e Wakka Wakka, spiega che i bastoni possono trasmettere molti messaggi diversi. “Alcuni servono per il commercio: di cibo, utensili o armi”, afferma. “Altri possono recare messaggi di pace dopo una guerra.”
Overmann ha sviluppato una propria ipotesi per spiegare la nascita dei sistemi numerici nella preistoria e in questo è stata aiutata dal fatto che nel mondo sono ancora in uso moltissimi sistemi diversi. Per esempio, i linguisti Claire Bowern e Jason Zentz della Yale University a New Haven, in Connecticut, hanno riferito in un’indagine pubblicata nel 2012 che 139 lingue degli aborigeni australiani hanno numeri specifici che arrivano fino al massimo a “tre” o “quattro”. Alcune di quelle lingue usano quantificatori naturali come “diversi” o “molti” per indicare valori al di sopra di tale soglia. Esiste persino un gruppo, il popolo Pirahã nell’Amazzonia brasiliana, di cui si dice a volte che non usi i numeri in alcuna forma.
Overmann e altri ricercatori sottolineano che non c’è alcuna carenza di capacità intellettuali nelle società che usano sistemi numerici relativamente semplici. Però l’archeologa si è chiesta se quelle società possano darci indicazioni sulle pressioni sociali che favoriscono lo sviluppo di sistemi numerici più complessi.
Contare i beni materiali
In uno studio del 2013, Overmann ha analizzato dati antropologici relativi a 33 società di cacciatori-raccoglitori attualmente esistenti nel mondo. Ha scoperto che le comunità che usavano sistemi numerici semplici (dove i numeri specifici non andavano molto oltre il “quattro”) spesso avevano pochi beni materiali, quali armi, utensili o gioielli, mentre le società con sistemi complessi (numeri che arrivavano ben oltre il “quattro”) avevano spesso una maggiore abbondanza di beni. Queste prove hanno suggerito alla ricercatrice che le società possano aver bisogno di una varietà di beni materiali per sviluppare sistemi numerici complessi.
Nelle società che usavano sistemi complessi, c’erano indizi di come essi si fossero sviluppati. In particolare Overmann ha notato che spesso quelle società usavano sistemi quinari (in base cinque), decimali o vigesimali (in base 20). Questo suggerisce che molti sistemi numerici si siano sviluppati a partire da una fase in cui si contava sulle dita.
Questa fase in cui si usano le dita è importante, secondo Overmann. L’archeologa è una fautrice della cosiddetta teoria del material engagement (MET), un quadro teorico definito una decina d’anni fa dall’archeologo cognitivo Lambros Malafouris dell’Università di Oxford, nel Regno Unito. Secondo la MET, la mente si estende al di là del cervello e raggiunge gli oggetti, per esempio gli utensili o anche le dita di una persona. Questa estensione permette alle idee di essere realizzate in forma fisica; così, nel caso della capacità di contare, la MET suggerisce che la concettualizzazione mentale dei numeri possa includere le dita. Ciò rende più tangibili i numeri e più facili le operazioni di addizione e sottrazione.
Secondo Overmann, le società che hanno superato la fase in cui si conta sulle dita lo hanno fatto perché hanno sviluppato in modo più chiaro il bisogno di numeri. In quello che è forse l’esempio più evidente, una società con più beni materiali ha più bisogno di contare (e di contare ben al di là di “quattro”) per tenere il conto degli oggetti.
Secondo Overmann, la MET implica che esista un altro modo in cui i beni materiali sono necessari per elaborare un sistema numerico. Un manufatto come un bastone su cui si segna il conteggio di qualcosa diventa anche un’estensione della mente e l’atto con cui si incidono le tacche del conteggio sul bastone aiuta ad ancorare e stabilizzare i numeri quando qualcuno conta. Questi supporti furono forse cruciali nel processo con cui gli esseri umani iniziarono a contare fino a grandi numeri.
Alla fine, afferma Overmann, alcune società superarono l’uso dei bastoni di conteggio. Ciò avvenne per la prima volta in Mesopotamia più o meno nello stesso periodo in cui in quella zona sorsero le prime città, le quali crearono un bisogno ancora maggiore di numeri che aiutassero a tenere il conto delle risorse e delle persone. Le prove archeologiche suggeriscono che 5500 anni fa alcuni abitanti della Mesopotamia abbiano iniziato a usare piccoli oggetti d’argilla come ausilio per facilitare i conteggi.
Secondo Overmann, la MET indica che anche questi oggetti erano estensioni della mente e che favorirono l’emergere di nuove proprietà numeriche. In particolare, le forme degli oggetti iniziarono a rappresentare valori diversi: 10 piccoli coni equivalevano a una sfera, sei sfere equivalevano a un cono grande. L’esistenza dei coni grandi, ciascuno dei quali equivaleva a 60 coni piccoli, permetteva agli abitanti della Mesopotamia di contare fino alle migliaia usando relativamente pochi oggetti.
Secondo Andrea Bender – psicologa all’Università di Bergen, in Norvegia, e anche lei tra i ricercatori alla guida del progetto QUANTA – il gruppo di ricerca intende raccogliere e analizzare grandi quantità di dati a proposito dei sistemi numerici di tutto il mondo. In questo modo dovrebbe riuscire a mettere alla prova l’ipotesi di Overmann secondo cui le parti del corpo e i manufatti possono aver aiutato le società a sviluppare sistemi numerici che alla fine permisero di contare fino alle migliaia e anche oltre. Però Bender afferma che lei e i suoi colleghi non partono dal presupposto che le idee di Overmann basate sulla MET siano corrette.
Altri si mostrano più entusiasti. Karim Zahidi, filosofo all’Università di Anversa, in Belgio, afferma che, pur essendo ancora incompleto, lo scenario di Overmann potrebbe davvero riuscire a spiegare lo sviluppo dei complessi sistemi numerici in uso oggi.
Prove linguistiche
Overmann riconosce che c’è un punto su cui la sua ipotesi non dice nulla: in quale momento della preistoria le società umane iniziarono a sviluppare sistemi numerici? Un aiuto in questo senso può venire dalla linguistica. Un insieme di dati suggerisce che i nomi dei numeri possano avere una storia che risale almeno a decine di migliaia di anni fa.
Il biologo evolutivo Mark Pagel dell’Università di Reading, nel Regno Unito, e i suoi colleghi studiano da anni la storia delle parole nelle famiglie linguistiche esistenti con l’aiuto di strumenti computazionali che inizialmente avevano sviluppato per studiare l’evoluzione biologica. Di base, le parole sono considerate come entità che rimangono stabili oppure vengono superate e sostituite via via che le lingue si diffondono e si differenziano. Per esempio, la parola inglese water e quella tedesca wasser sono chiaramente imparentate, il che significa che derivano da una stessa parola antica; questo è un esempio di stabilità. Invece la parola inglese hand è diversa dalla parola spagnola mano, segno che a un certo punto, in passato, c’è stata una sostituzione. Calcolando quanto spesso avvengono queste sostituzioni sul lungo periodo, è possibile stimare i tassi di cambiamento e desumere l’età delle parole.
Usando questo metodo, Pagel e Andrew Meade dell’Università di Reading hanno dimostrato che i nomi dei numeri con valori bassi (da “uno” a “cinque”) sono tra gli elementi più stabili delle lingue orali: cambiano così raramente nelle famiglie linguistiche (per esempio la famiglia indoeuropea, che include molte lingue moderne dell’Europa e dell’Asia meridionale) che a quanto pare sono rimasti stabili per un tempo che va da 10.000 a 100.000 anni.
Questo non dimostra che i numeri da “uno” a “cinque” derivino da antiche parole imparentate pronunciate per la prima volta decine di migliaia di anni fa, ma Pagel afferma che è almeno “concepibile” che un abitante moderno e un abitante paleolitico dell’Eurasia si sarebbero potuti capire a vicenda per quanto riguarda i nomi di questi numeri.
Il lavoro di Pagel piace a diversi studiosi, tra cui Gray, un altro dei ricercatori alla guida del progetto QUANTA, ma le sue affermazioni sono contestate da alcuni studiosi di lingue antiche. Secondo Don Ringe, esperto di linguistica diacronica all’Università della Pennsylvania a Filadelfia, non è evidente che la stabilità dei nomi dei numeri piccoli si possa semplicemente proiettare indietro di molto nella preistoria, indipendentemente da quanto quei nomi sembrino stabili negli ultimi millenni.
Tutto ciò si riassume in una valanga di questioni aperte sul come e sul quando gli esseri umani iniziarono a usare i numeri. Tuttavia, al di là dell’acceso dibattito, i ricercatori concordano che l’argomento meriti molta più attenzione. “I numeri sono così fondamentali per tutto ciò che facciamo – commenta Gray – che è difficile immaginare la vita umana senza di essi.”
È anche possibile che i numeri siano diventati così importanti già negli abissi della preistoria. L’osso di babbuino segnato da tacche e ritrovato nella Border Cave è consumato e liscio, e questo indica che gli antichi esseri umani lo usarono per molti anni. “Era chiaramente un oggetto importante per la persona che lo fece”, afferma D’Errico.
Non si può dire altrettanto dell’esemplare di Les Pradelles, che non presenta la stessa superficie liscia. Se è vero che registra informazioni numeriche, forse all’epoca quelle informazioni non erano altrettanto importanti. In effetti, anche se D’Errico e i suoi colleghi hanno passato tantissime ore ad analizzare l’osso, secondo il ricercatore è possibile che l’uomo di Neanderthal che incise quell’osso di iena circa 60.000 anni fa lo usò per pochissimo tempo prima di buttarlo via.
————————-
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Nature” l’8 gennaio 2021. Traduzione di Francesca Bernardis, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)