Non sarà facile ripulire lo spazio dai nostri rifiuti
Reti, raggi laser, arpioni, bracci robotici: sono tante le soluzioni proposte per rimuovere l’enorme massa di rottami che affollano le orbite più frequentate dai satelliti, mettendoli a grave rischio. Non c’è però una soluzione unica per tutte le tipologie di detriti, e la questione è complicata dal fatto che gli strumenti di rimozione potrebbero essere usati come arma in un potenziale guerra spaziale
di Leonard David/Scientific American
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Una “tragedia dei beni comuni” dell’era spaziale si sta svolgendo proprio sotto il nostro naso – anzi, per la precisione, sopra le nostre teste – e ancora non c’è un’idea condivisa su come fermarla. Da oltre mezzo secolo gli esseri umani si sono messi a scagliare oggetti in orbita terrestre bassa, in numero sempre crescente. E con poche limitazioni significative su ulteriori lanci in quella zona già molto trafficata, l’atteggiamento prevalente continua a essere molto permissivo: in orbita, sembrerebbe, c’è sempre spazio per un oggetto in più.
Dopo tanti decenni di accumulo di detriti velocissimi, sotto forma di stadi di propulsione esauriti, bulloni e scaglie di pittura vaganti, scorie di razzi a propellente solido, satelliti morti o morenti, e rottami sparsi in giro dai test di sistemi anti-satellite – ne basta uno solo, di questi detriti, per danneggiare o distruggere altri veicoli spaziali – l’affollamento dell’orbita bassa è ormai veramente sul punto di diventare eccessivo.
Il problema, per di più, sta per aggravarsi, e di molto, con l’arrivo di “mega-costellazioni” di satelliti che prevedono migliaia di oggetti orbitanti, come SpaceX Starlink, una rete internet a banda larga. E Starlink è solo un progetto fra i tanti: si sta già schierando un’altra mega-costellazione, di un’azienda denominata One Web. E il progetto Kuiper di Amazon intende realizzare nel prossimo futuro una mega-costellazione che potrebbe richiedere fino a 3200 satelliti.
Con la crescente congestione, sono cresciuti anche i casi di collisioni a malapena evitate tra oggetti orbitanti. La Stazione spaziale internazionale, per esempio, deve regolarmente aggiustare la propria orbita per evitare rottami potenzialmente dannosi. Peggio ancora, c’è stata una crescita del rischio di vere e proprie collisioni, che generano altri minacciosi rifiuti, esacerbando una situazione già grave. Si pensi allo scontro del febbraio 2009 fra un satellite Cosmos russo ormai morto e un veicolo spaziale commerciale di Iridium, che ha prodotto una quantità enorme di frammenti.
Trovare il modo per rimuovere almeno in parte tutta questa spazzatura spaziale dovrebbe essere fra le massime priorità mondiali, dice Donald Kessler, oggi in pensione, che è stato uno tra i più eminenti scienziati della NASA impegnati nella ricerca sui detriti spaziali. Già nei tardi anni settanta aveva previsto la possibilità di uno scenario che oggi va sotto il nome di sindrome di Kessler: con il crescere della densità dei rifiuti spaziali, può prodursi un’incontrollabile ciclo autoalimentato di collisioni che generano a loro volta, a cascata, altri rottami; che potrebbe anche arrivare a rendere l’orbita terrestre bassa troppo pericolosa per la maggior parte delle attività spaziali.
di Alexandra Witze/Nature “Nella comunità scientifica è oggi opinione comune che, per quanto riguarda i detriti, l’ambiente ha già superato il punto di svolta: i frammenti continuerebbero ad aumentare anche se si fermassero del tutto i lanci”, dice Kessler. “Ci vuole una collisione del tipo di quella fra Iridium e Cosmos per richiamare l’attenzione generale. Alla fine, tutto si riduce a questo… Ed è un pezzo, ormai, che ci aspettiamo che avvenga qualcosa del genere.”
Quanto alla sindrome di Kessler, aggiunge l’esperto, “è già cominciata. Di collisioni se ne verificano costantemente, anche se meno spettacolari e non tra gli oggetti più grandi”, aggiunge.
Salire a pulire
Lo scenario da incubo di Kessler ha generato una moltitudine di possibili sistemi per ripulire lo spazio dai detriti: reti, raggi laser, arpioni, palle di schiuma giganti, soffi d’aria, cavi d’ormeggio e vele solari – nonché bracci e tentacoli robotici – sono fra le soluzioni proposte per togliere di mezzo la nostra immondizia orbitale.
L’ultima arrivata, nel tentativo di affrontare questo preoccupante stato delle cose, è una missione dimostrativa appena lanciata, End-of-Life Services of Astroscale Demonstration (ELSA-d). Sviluppata appunto da Astroscale, un’azienda di servizi satellitari con sede in Giappone, la missione è composta da due satelliti: uno è il satellite “di servizio”, progettato per rimuovere in sicurezza detriti dall’orbita, e l’altro il satellite “cliente”, che rappresenta anche l’oggetto di interesse.
Il progetto vuol essere una vetrina per un sistema magnetico in grado di catturare gli oggetti in orbita stabile ma anche quelli in moto erratico, sia per rimuoverli sia per sottoporli a manutenzione in orbita. Dopo una serie di test, articolata in diverse fasi, i satelliti cliente e di servizio lasceranno poi l’orbita insieme, disintegrandosi in un tuffo infuocato nell’atmosfera terrestre.
ELSA-d è adesso in orbita attorno alla Terra. Il lancio è avvenuto il 22 marzo, con un vettore russo Soyuz che ha dato un passaggio, contemporaneamente, a un gran numero di altri satelliti di vario tipo. Dopo il decollo, il fondatore e amministratore delegato di Astroscale, Nobu Okada, ha detto che ELSA-d dimostrerà di avere la capacità di rimuovere detriti dallo spazio e “darà una spinta agli sviluppi normativi e alla validità economica dei servizi di rimozione attiva dei detriti e dei satelliti a fine vita”. Il lancio è un passo verso “uno sviluppo sicuro e sostenibile dello spazio a vantaggio delle generazioni future”, dice.
Anche se ELSA-d e altre dimostrazioni tecnologiche del genere sono senz’altro sviluppi positivi in tema di rimozione dei detriti orbitali, sarebbe sbagliato scambiarle per una soluzione definitiva. Malgrado il loro relativo successo, queste missioni sono ben lontane dal poter affrontare il dinamismo del problema in atto; la proliferazione della spazzatura spaziale continua, in sostanza, senza rallentamenti.
Una soluzione unica e universale?
“Dal mio punto di vista, la soluzione migliore per la questione dei detriti spaziali è cominciare a non produrli”, osserva Thomas S. Kelso, scienziato di CelesTrack, un gruppo di analisti che tiene d’occhio gli oggetti in orbita terrestre. “Come sempre quando si tratta di ambiente, è più facile e molto meno costoso prevenire l’inquinamento che ripulire dopo. Smettiamo di lasciare in orbita gli oggetti che hanno portato a termine il loro compito.”
Non c’è, semplicemente, una soluzione buona per tutti gli usi al problema della spazzatura spaziale. Rimuovere un grosso razzo esaurito è un compito significativamente diverso dal rimuovere la stessa massa suddivisa in oggetti molto più numerosi e più piccoli dispersi in una vasta gamma di orbite, osserva.
Intanto le innovazioni apportate da aziende come Space X stanno abbassando in modo spettacolare i costi di lancio, aprendo le cateratte all’arrivo di un numero assai maggiore di satelliti nell’orbita terrestre bassa, dove qualcuno di essi inevitabilmente avrà un guasto e si tramuterà in un pericoloso relitto alla deriva che genera altri detriti e altri pericoli (a meno che non venga rimosso da rimorchiatori spaziali sul modello di ELSA-d). “Molti degli operatori stanno cominciando a capire quanto sia difficile e complesso continuare a schivare il numero crescente dei detriti.”
La spazzatura spaziale va dalle nanoparticelle a interi veicoli spaziali come Envisat, un satellite dell’Agenzia spaziale europea delle dimensioni di un autobus a due piani, che tutti mettono in cima alla lista delle cose da togliere di mezzo, nota Alice Gorman, archeologa spaziale ed esperta di spazzatura spaziale della Flinders University, in Australia.
Vi sono anche oggetti come i contrappesi usati per il controllo della rotazione, che sono di metallo massiccio, e i rivestimenti termici, sottili come un foglio di carta. “Causano danni di tipo diverso, e per rimuoverli servono strategie diverse. Non c’è modo di farlo con un unico approccio, lo stesso per tutti”, dice Gorman.
I rischi maggiori, precisa, vengono dai detriti di dimensioni comprese tra uno e dieci centimetri. “Sono molti di più dei veicoli spaziali interi non più funzionanti, e la probabilità di collisione è molto più alta”, spiega Gorman. “E se i detriti di questa grandezza magari non arrivano a causare disintegrazioni catastrofiche, possono comunque danneggiare il funzionamento dei satelliti e creare nuovi detriti spaziali.”
Passando alle mega-costellazioni di satelliti, Gorman si preoccupa degli effetti che potranno avere nel già congestionato ambiente dell’orbita bassa. “Sappiamo, anche, che le dinamiche orbitali possono essere imprevedibili”, dice. “Vorrei proprio che gli operatori di queste mega-costellazioni rendessero pubblici i loro modelli di collisione a lungo termine, ora che viene lanciato un numero sempre più alto di satelliti.”
Indubbiamente, la rimozione attiva dei detriti orbitali è tecnicamente difficoltosa, dice Gorman. “Ma la questione più spinosa è che ogni tecnologia che riesca effettivamente a eliminare un relitto oggi in orbita può essere usata anche come arma anti-satellite”, spiega. “E questo è un altro grosso nido di vespe, che richiede diplomazia e consultazioni e, soprattutto, un clima di fiducia a livello internazionale.”
In effetti, la possibilità di accostarsi a un veicolo spaziale a fini di manutenzione o per sabotarlo ha destato negli ultimi anni un considerevole interesse fra i pianificatori militari, dice Mariel Borowitz, docente alla Sam Nunn School of International Affairs del Georgia Institute of Technology. “Sono tecnologie in rapido progresso e potenzialmente utilizzabili sia per attività spaziali pacifiche sia per fare la guerra nello spazio. Data la duplice natura di queste tecniche e strumenti, è impossibile sapere con certezza in anticipo come saranno usate domani o dopodomani.”
Spazio occupato
Per ora, stando a Moriba Jah, esperto di detriti orbitali dell’Università del Texas a Austin, la rimozione dei detriti dallo spazio non arriva a essere un’attività economica remunerativa: è più una faccenda di “chiacchiere e presentazioni PowerPoint” che un vero e proprio mercato.
“Immagino che tutti sperino che il governo trovi quel tanto di buon senso da contribuire a creare e stabilizzare un mercato che consenta alle aziende di impegnarsi in questo genere di attività”, dice Jah. Perché ciò accada, ritiene che i paesi che lanciano veicoli spaziali debbano tutti accettare che la zona dello spazio prossima alla Terra è un ecosistema come il suolo, l’atmosfera e gli oceani. “Non è infinito, e dunque abbiamo bisogno di misure di protezione ambientale.”
Jah pensa a indici quantitativi di sostenibilità nello spazio, analoghi al concetto di impronta ecologica per le emissioni di carbonio in atmosfera: “Chiamiamola impronta di traffico spaziale”. “Ci serve un modo per definire quantitativamente il punto in cui una certa ‘corsia spaziale’ diventa satura di traffico, e quindi non più utilizzabile. A quel punto si può mettere una taglia sui vari oggetti e parlare di rimozione non consensuale dei detriti. Magari con una penale per gli stati che possiedono oggetti non più funzionali che riducono la capacità di traffico su un’orbita. Questo potrebbe senz’altro creare un mercato in cui le tecnologie di rimozione degli oggetti spaziali potrebbero prosperare.”
È poi necessario uno schema di classificazione degli oggetti presenti nello spazio. Secondo Jah, disporre di una tassonomia aiuterebbe a capire di che tipo di tecnologie c’è bisogno per rimuovere le diverse categorie di rifiuti orbitali.
Quanto al quadro più generale, Jah dice che è semplicemente questione di numeri: la frequenza dei lanci supera quella degli oggetti che rientrano dallo spazio nell’atmosfera terrestre. “Come bilancio energetico, non è certo l’ideale”, aggiunge.
Purtroppo, conclude Jah, le autorità tardano ancora a reagire al problema. In fin dei conti, anche se certi eventi, come la collisione tra Cosmos e Iridium del 2009, generano grandissime quantità di detriti, sono ancora eventi decisamente rari. Per ora.
“Per come la vedo io, quella collisione del 2009 è un po’ come se i passeggeri del Titanic avessero sentito l’urto di un iceberg, e l’orchestra stesse suonando sul ponte”, dice Jah. “Per quanto riguarda il pericolo dei detriti orbitali, le cose stanno già volgendo decisamente al brutto, perché non abbiamo cambiato i nostri comportamenti.”