I pesci divoravano microplastiche già dagli anni ’50

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I pesci divoravano microplastiche già dagli anni ’50

Le collezioni museali rivelano che l’inquinamento da microplastiche è iniziato praticamente subito
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Lo studio “A fish tale: a century of museum specimens reveal increasing microplastic concentrations in freshwater fish”, pubblicato su Ecological Applications da un team di ricercatori statunitensi e canadesi che, paraprasando una pubblicità che è evidentemente internazionale dicono: «Dimenticatevi i diamanti: la plastica è per sempre. Ci vogliono decenni, o addirittura secoli, perché la plastica si rompa, e quasi ogni pezzo di plastica prodotto esiste in qualche forma ancora oggi».

Inizialmente si pensava che il pericolo per la fauna selvatica venisse solo dai grossi pezzi di plastica dispersi nell’ambiente, come gli anelli di plastica delle confezioni da 6 di birra, ma poi gli scienziati hanno scoperto microscopici pezzetti di plastica nell’acqua, nel suolo e persino l’atmosfera: le microplastiche e, per scoprire come si sono accumulate nel secolo scorso, gli autori del nuovo studio i hanno esaminato le viscere dei pesci d’acqua dolce conservati nelle collezioni dei musei, scoprendo che «I pesci ingoiano microplastiche dagli anni ’50 e che la concentrazione di microplastiche nelle loro viscere è aumentata nel tempo».

Uno degli autori dello studio, Timothy Hoellein del Department of biology della Loyola University of Chicago, ricorda che «Negli ultimi 10 o 15 anni è entrato un po’ nella coscienza dell’opinione pubblica che c’è un problema con la plastica nell’acqua. Ma in realtà, gli organismi sono stati probabilmente esposti ai rifiuti di plastica da quando la plastica è stata inventata e non sappiamo cosa questo sia nel contesto storico. Analizzare gli esemplari del museo è essenzialmente un modo per tornare indietro nel tempo».

Un altro autore dello studio, Caleb McMahan, un ittiologo del Field Museum of Natural History di Chicago, che cura una collezione museale di circa due milioni di esemplari di pesce, la maggior parte dei quali sono conservati in alcool e conservati in barattoli nel centro sotterraneo per le collezioni del museo, dice che «Tuttavia, questi esemplari sono più che semplici pesci morti: sono un’istantanea della vita sulla Terra. Non possiamo mai tornare indietro a quel periodo di tempo, in quel luogo».

Hoellein e la sua studentessa laureata Loren Hou erano interessati ad esaminare l’accumulo di microplastiche nei pesci d’acqua dolce della regione di Chicagoland, così hanno contattato McMahan, che li ha aiutati a identificare 4 specie di pesci comuni per i quali il museo aveva registrazioni cronologiche risalenti al 1900: persico trota, pesce gatto del canale, shiner della sabbia e ghiozzi rotondi. Anche i campioni dell’Illinois Natural History Survey e dell’università del Tennessee hanno contribuito a colmare le lacune nel campionamento.

La Hou, principale autrice dello studio, spiega come si è svolta la ricerca: «Prendevamo questi barattoli pieni di pesce e trovavamo esemplari che erano una sorta di media, non il più grande o il più piccolo, e poi abbiamo usato bisturi e pinzette per sezionare i tratti. Abbiamo cercato di ottenere almeno 5 esemplari per decennio». Per trovare davvero la plastica nelle viscere dei pesci, la Hou ha trattato i loro tratti digestivi con perossido di idrogeno e spiega ancora: «Bolle, effervescenza che frantumano tutta la materia organica, ma la plastica è resistente al processo. Però, la plastica rimasta è troppo piccola per essere vista ad occhio nudo. Sembra solo una macchia gialla, non la vedi finché non la metti al microscopio. Ingrandendola, però, è più facile identificarlo. Guardiamo la forma di questi piccoli pezzi. Se i bordi sono sfilacciati, spesso è materiale organico, ma se è davvero liscio, è molto probabile che sia microplastica».

Per confermare l’identità di queste microplastiche e determinare da dove provenissero, Hou e Hoellein hanno lavorato con i loro colleghi dell’università di Toronto per esaminare i campioni utilizzando la spettroscopia Raman, una tecnica che utilizza la luce per analizzare la firma chimica di un campione, e  hanno scoperto che «La quantità di microplastiche presenti nelle viscere dei pesci è aumentata notevolmente nel tempo, man mano che più plastica veniva prodotta e accumulata nell’ecosistema. Prima della metà del secolo scorso non c’erano particelle di plastica, ma quando la produzione di plastica venne industrializzata negli anni ’50, le concentrazioni salirono alle stelle».

McMahan  conferma: «Abbiamo scoperto che il carico di microplastiche nell’intestino di questi pesci è sostanzialmente aumentato con i livelli di produzione di plastica- E’ lo stesso modello di ciò che stanno trovando nei sedimenti marini, segue la tendenza generale secondo cui la plastica è ovunque».

L’analisi delle microplastiche ha confermato una forma di inquinamento insidiosa: i tessuti: «Le microplastiche possono provenire da oggetti più grandi che vengono frammentati, ma spesso provengono da vestiti – ha detto la Hou – ogni volta che lavi un paio di leggings o una camicia di poliestere, piccoli fili si staccano e vengono scaricati nella rete idrica. Indossiamo plastica e non ci pensiamo. Quindi, anche solo pensarci è un passo avanti per tenerne conto nei nostri acquisti e per la nostra responsabilità».

LO studio non chiarisce se e come l’ingestione di queste microplastiche abbia influenzato i pesci, ma la Hou fa notare che «Quando si osservano gli effetti dell’ingestione di microplastiche, in particolare gli effetti a lungo termine, per organismi come i pesci, provoca cambiamenti del tratto digerente e provoca anche un aumento dello stress in questi organismi».

Per McMahan «I risultati sono chiari e uno dei grafici dello studio che mostra il forte aumento delle microplastiche è allarmante. Spero che serva da campanello d’allarme».

Hoellein sintetizza: «L’intero scopo del nostro lavoro è contribuire alle soluzioni. Abbiamo alcune prove che l’istruzione pubblica e le politiche possono cambiare il nostro rapporto con la plastica. Non sono solo cattive notizie, c’è un’applicazione concreta che penso dovrebbe dare a tutti una ragione collettiva di speranza».

E i ricercatori sottolineano che lo studio evidenzia anche l’importanza delle collezioni di storia naturale nei musei e Hoellein conferma: «Sia io che Loren adoriamo il Field Museum, ma non sempre lo  pensiamo in termini di operazioni scientifiche quotidiane. E’ un’incredibile risorsa del mondo naturale, non solo per come esiste ora ma per come esisteva in passato. Per me, è divertente pensare alla collezione del museo un po’ come alla voce di quegli organismi morti da tempo che ci dicono ancora qualcosa sullo stato del mondo oggi».

McMahan  conclude: «Non si può fare questo tipo di lavoro senza queste raccolte. Abbiamo bisogno di esemplari più vecchi, abbiamo bisogno di quelli recenti e avremo bisogno di ciò che raccoglieremo nei prossimi 100 anni».

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