Continua inesorabile la ritirata dei ghiacciai
La prima mappatura globale dei ghiacciai continentali, oltre 200.000, ha mostrato che la perdita di massa procede molto più rapidamente di quella della calotta antartica e groenlandese. La principale conseguenza è che molte regioni rischiano di subire disastrose alluvioni seguite da gravi problemi idrici per l’impoverimento dei grandi fiumi
di Davide Michielin
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Più che di un ritiro si tratta di una vera e propria ritirata. Dall’inizio del terzo millennio i ghiacciai del pianeta hanno perso in media 267 miliardi di tonnellate di ghiaccio ogni anno, una quantità sufficiente per sommergere l’Italia sotto quasi un metro. In appena vent’anni la velocità di questa ritirata è pressoché raddoppiata, passando dai 227 miliardi di tonnellate persi tra il 2000 e il 2004 ai 298 miliardi di tonnellate osservati 15 anni più tardi. Il bilancio risulta ancora più agghiacciante se si considera che questo computo non include l’enorme massa di ghiaccio persa nello stesso intervallo di tempo dalle calotte polari.
A scattare questa mesta fotografia sono i ricercatori dell’Università di Tolosa e i loro colleghi del Politecnico federale di Zurigo (ETH), che sulla rivista “Nature” hanno pubblicato quello che può essere considerato a buon diritto il primo atlante globale del ritiro dei ghiacciai. La risoluzione spaziale e temporale dello studio è infatti senza precedenti e mostra quanto rapidamente i ghiacciai abbiano perso spessore e massa negli ultimi due decenni.
La mappatura si è basata sul poderoso archivio di immagini satellitari ad alta risoluzione scattate da Terra, il satellite di telerilevamento che è il fulcro dell’Earth Observing System della NASA. Queste immagini stereoscopiche, opportunamente elaborate per generare quasi mezzo milione di modelli di elevazione digitale, hanno permesso di ricostruire una dettagliatissima serie temporale delle variazioni di elevazione.
Incrociando questi dati con oltre 25 milioni di rilevazioni del satellite ICESat, sempre della NASA, i ricercatori hanno potuto misurare con una precisione finora impensabile i cambiamenti di spessore degli oltre 200.000 ghiacciai che punteggiano i continenti.
Gli effetti del cambiamento climatico sono ormai visibili a qualunque latitudine e altitudine: siccità, ondate di calore, uragani e altri eventi meteorologici estremi, acidificazione delle acque. Nonostante ciò, alcuni ambienti sono più sensibili di altri alla febbre planetaria. Che i ghiacciai di tutto il mondo siano in crisi non è certo una novità: il fenomeno è ben attestato da numerosi studi e osservazioni fin dalla metà del secolo scorso.
Tuttavia, solo alcune centinaia di ghiacciai sono monitorati sul posto. “Inoltre, era impossibile quantificare con precisione il loro ritiro su scala globale a causa della disomogeneità delle misure e della metodologia usata. I punti di forza di questo studio, che ha richiesto quasi tre anni di lavoro e una notevole potenza di calcolo, sono proprio il dettaglio e l’uniformità delle misurazioni”, spiega Daniel Farinotti, professore di glaciologia al Politecnico federale di Zurigo e coautore dello studio coordinato da Romain Hugonnet. La banca dati include 217.175 ghiacciai che nel loro insieme coprono 705.997 chilometri quadrati, 200.000 dei quali costituiti dai cosiddetti ghiacciai periferici di Groenlandia e Antartide, masse di ghiaccio costiere disgiunte dalle rispettive calotte.
Tra il 2000 e il 2019 i ghiacciai hanno perso in media 267 miliardi di tonnellate ogni anno, equivalenti a una massa del 47 per cento superiore a quella sparita nello stesso intervallo di tempo dalla calotta groenlandese nonché il doppio della perdita misurata in quella antartica. Nel complesso, l’83 per cento della massa perduta si concentra in appena sei macroregioni: Alaska (25 per cento), Canada (20 per cento), ghiacciai periferici di Groenlandia (13 per cento) e Antartide (8 per cento), principali catene montuose dell’Asia (8 per cento) e Ande meridionali (8 per cento).
“In altre regioni il fenomeno rallenta, come lungo la costa orientale della Groenlandia, in Islanda e Scandinavia. Ciò sembra essere dovuto a un’anomalia meteorologica locale che nell’ultimo decennio ha causato precipitazioni più abbondanti e temperature più basse”, commenta Farinotti.
Dallo studio emerge inoltre che la cosiddetta “anomalia del Karakorum” va affievolendosi. Fino al 2010 i ghiacciai di questa imponente catena montuosa, tra Pakistan, Cina e India, risultavano stabili se non addirittura in crescita. Tuttavia, negli ultimi dieci anni anche le nevi eterne del Karakorum hanno finito per perdere massa, anche se a un ritmo più contenuto di quelli delle altre catene asiatiche.
“La situazione sull’Himalaya è particolarmente preoccupante perché, durante la stagione secca, le acque di disgelo dei ghiacciai alimentano i principali corsi d’acqua della regione come il Gange, il Brahmaputra e l’Indo. Se il ritiro dei ghiacciai himalayani continuerà ad accelerare, paesi popolosi come India e Bangladesh potrebbero dover affrontare carenze di acqua o cibo nell’arco di pochi decenni”, chiarisce in un comunicato stampa Romain Hugonnet, primo autore dello studio.
Secondo un rapporto del Centro internazionale per lo sviluppo integrato della montagna (ICIMOD, International Centre for Integrated Mountain Development) sono oltre 250 milioni le persone che dipendono direttamente dalle acque di disgelo dei ghiacciai di Hindu Kush e Himalaya. E circa un miliardo e 650 milioni quelle che vivono lungo i grandi fiumi che nascono dall’Himalaya.
Come dimostra la recente catastrofe nello Stato indiano dell’Uttarakhand, nei prossimi anni queste regioni saranno sempre più spesso minacciate da allagamenti e alluvioni. Nel giro di pochi decenni la situazione potrebbe capovolgersi: la penuria di acqua rischia di mettere in ginocchio l’agricoltura e perfino l’approvvigionamento idrico locale.
La scomparsa del ghiaccio non colpisce solamente gli abitanti delle valli ma interessa indirettamente anche quelli che abitano le coste. “Anche se buona parte dell’attuale innalzamento del livello del mare dipende dall’espansione termica dell’acqua, negli ultimi vent’anni la fusione dei ghiacciai ha contribuito con un aumento annuo di 0,74 millimetri, pari al 21 per cento del totale”, riprende Farinotti, ricordando le inevitabili ricadute sociali: “Buona parte della popolazione mondiale vive lungo le coste e le proiezioni più recenti non escludono che, entro la fine del secolo, il livello del mare potrebbe alzarsi fino a un metro. Nel corso della nostra vita potremmo quindi assistere a veri e propri esodi di massa, un fattore che potrebbe destabilizzare intere regioni”.
Per quanto riguarda i quasi 3500 ghiacciai delle Alpi, negli ultimi vent’anni l’assottigliamento è proceduto spedito, soprattutto nelle sezioni nord-orientali. “Insieme all’Alaska, le Alpi sono purtroppo una delle regioni più vulnerabili al cambiamento climatico. Anche adottando lo scenario di emissioni più favorevole, secondo le nostre previsioni il 65 per cento del volume attuale scomparirà entro la fine secolo. Se invece non verrà presa alcuna misura per contrastare il cambiamento climatico, gli unici ghiacciai alpini che rimarranno saranno quelli riprodotti nei francobolli e nelle cartoline”, aggiunge il glaciologo.
In uno studio non ancora pubblicato, Farinotti e altri colleghi si sono spinti oltre e hanno provato a quantificare il ritiro dei ghiacciai alpini in intervalli ristretti di temperatura. Secondo i loro calcoli, un aumento di 1 °C provocherebbe nel 2100 una perdita del 44 per cento dell’attuale volume dei ghiacciai; con appena mezzo grado in più (+1,5 °C) la perdita si assesterebbe al 68 per cento; e un ulteriore aumento di mezzo grado comporterebbe la scomparsa dell’81 per cento del volume.
Per questa ragione gli sforzi compiuti per realizzare l’atlante della ritirata dei ghiacci non sono destinati a rimanere un mero esercizio accademico, ma verranno inclusi nel prossimo rapporto di valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite, previsto entro la fine dell’anno. “Speriamo che questi risultati possano essere utili anche a livello politico. L’umanità deve agire concretamente per limitare le conseguenze del cambiamento climatico. Sono convito che chiunque abbia visto con i propri occhi con quale velocità il pianeta sta cambiando possa comprendere l’urgenza”, conclude Farinotti.