L’astronomia e la fisica quantistica unite per un nuovo sguardo sul cosmo
I progressi della comunicazione quantistica stanno aprendo la strada alla creazione di grandi reti di telescopi ottici che sfruttano le tecniche di interferometria – ora confinate ai radiotelescopi o a reti ottiche molto piccole e raccolte – consentendo di ottenere immagini dirette di oggetti celesti come i buchi neri, e non più ricostruite a posteriori. Restano ancora da superare alcuni ostacoli, ma sono molti i ricercatori impegnati in questa storica sfida
di Anil Ananthaswamy/Scientific American
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Un paio di anni fa, i ricercatori dell’Event Horizon Telescope (EHT), una rete di telescopi che operano nello spettro delle onde radio, hanno condotto un’osservazione straordinaria, del calibro di quelle che per la maggior parte degli altri astronomi resta un sogno. Nell’aprile del 2019, la collaborazione ha infatti annunciato di aver ricostruito l’immagine dell’ombra prodotta da un buco nero supermassiccio in una galassia vicina, combinando le osservazioni raccolte da otto diversi radiotelescopi sparsi per il pianeta. La tecnica usata, chiamata interferometria, ha di fatto permesso agli studiosi di ottenere una risoluzione – la capacità di distinguere le sorgenti astronomiche – pari a quella di un telescopio grande come la Terra.
Gli attuali interferometri che lavorano alle lunghezze d’onda della luce visibile, quella su cui si basano le splendide fotografie del telescopio spaziale Hubble e di molti altri strumenti celebri, possono combinare solamente la luce raccolta da osservatori che distano al più poche centinaia di metri. Ma questa realtà potrebbe presto cambiare grazie alla fisica quantistica, potenzialmente in grado di aiutare gli astronomi a collegare telescopi ottici distanti decine, se non centinaia, di chilometri.
Questi interferometri ottici funzionerebbero grazie ai progressi compiuti nel campo della comunicazione quantistica, e in particolare allo sviluppo di dispositivi per immagazzinare i delicati stati quantistici dei fotoni raccolti da ogni telescopio. Chiamati hard disk quantistici (quantum hard drive, QHD), questi dispositivi potrebbero essere trasportati fisicamente in un luogo centralizzato dove i dati raccolti da ciascun telescopio verrebbero recuperati e combinati per rivelare collettivamente i dettagli di qualche corpo celeste lontano.
Una scoperta di due secoli fa
La tecnica ricorda l’iconico esperimento della doppia fenditura eseguito per la prima volta nel 1801 dal fisico Thomas Young, nel quale la luce colpisce uno schermo opaco su cui sono presenti due fenditure. La luce attraversa le fenditure e si ricombina dietro lo schermo creando uno schema di frange d’interferenza in cui si alternano bande chiare e scure, noto anche come interferogramma. L’esperimento funziona anche quando sono singoli fotoni ad attraversare uno alla volta le fenditure: col tempo, appare comunque uno schema d’interferenza.
“Riuscendo a far sì che due telescopi si comportino come le fenditure di Young e a ottenere uno schema d’interferenza da una certa fonte luminosa, per esempio una stella, quell’interferogramma ci dirà moltissimo sulla sorgente”, spiega l’astronomo Jonathan Bland-Hawthorn dell’Università di Sydney, il cui team ha proposto di usare gli hard disk quantistici per costruire interferometri ottici. Questi strumenti potrebbero un giorno permettere agli astronomi di misurare con maggior precisione dimensioni e movimenti intrinseci di stelle e galassie, un elemento fondamentale per capire l’evoluzione del cosmo.
Se è stato possibile costruire radiointerferometri impressionanti come l’EHT, ciò è dovuto principalmente al fatto che l’interferometria è più facile da realizzare nello spettro radio che a frequenze ottiche, per tre importanti ragioni.
Primo, le antenne radio sono più economiche dei telescopi ottici, quindi è possibile costruirne molte (per aumentare l’area di raccolta del segnale e quindi la sensibilità) e collocarle a grande distanza (per aumentare la risoluzione). Secondo, gli oggetti astronomici emettono radiazioni di maggiore intensità nel campo delle onde radio, semplificando la registrazione e la successiva correlazione dei segnali raccolti dalle singole antenne. Invece, di solito, le sorgenti ottiche sono molto, molto più deboli, tanto che spesso i telescopi devono accumulare la luce proveniente da un oggetto celeste letteralmente un fotone alla volta, trasformando l’interferometria in un problema quantomeccanico. Terzo, l’atmosfera terrestre distorce la luce visibile, lasciando ai telescopi pochissimo tempo per raccogliere i fotoni prima che strati di aria turbolenta ne perturbino fase o coerenza.
Finora questi limiti hanno posto seri vincoli alla linea di base degli interferometri ottici, ossia la separazione massima tra ogni telescopio collegato. Per esempio, il Center for High Angular Resolution Astronomy (CHARA) è una rete di sei telescopi ottici da un metro di apertura in funzione all’osservatorio di Mount Wilson, in California, che vanta una linea di base massima di 330 metri. L’interferometro GRAVITY dell’European Southern Observatory, che collega quattro telescopi da 8,2 metri all’osservatorio Paranal in Cile, ha invece una separazione massima di 130 metri. “L’interferometro in assoluto più imponente al mondo è senz’altro GRAVITY”, precisa Bland-Hawthorn. “Ora immaginate GRAVITY con [una linea di basedi]oltre un chilometro, tre chilometri o dieci chilometri”.
Progetti simili non sarebbero concretamente realizzabili con la tecnologia ottica convenzionale. I fotoni raccolti da ogni telescopio devono essere inviati lungo fibre ottiche da qualche parte in cui possano essere combinati. Inoltre, i fotoni provenienti da certi telescopi devono essere mantenuti in sospeso nelle cosiddette “linee di ritardo”, che spesso comportano l’uso di fibre ottiche, per assicurare che la luce proveniente da tutti i telescopi percorra la stessa distanza.
Se le linee di trasmissione o di ritardo diventano troppo lunghe – cosa che avviene già a scale ben inferiori di quelle del chilometro – i fotoni a un certo punto vengono assorbiti o diffusi, impedendo così la formazione delle figure d’interferenza.
È un compito impossibile, insomma, senza l’ausilio della meccanica quantistica. Nel 2011, Daniel Gottesman, del Perimeter Institute for Theoretical Physics, in Ontario, ha proposto insieme ai suoi colleghi di inserire una sorgente di fotoni entangled a metà strada tra due telescopi lontani. La sorgente invia uno di due fotoni entangled a ogni telescopio, dove la particella viene fatta interferire con un altro fotone ricevuto da un corpo celeste. La misura d’interferenza ottenuta in ogni telescopio viene registrata e potrà essere usata più tardi per ricostruire un interferogramma.
Nonostante in linea di principio questa procedura possa sembrare semplice, le lunghe linee di basedell’interferometria ottica richiederebbero l’uso di ripetitori quantistici, costosi e complessi strumenti costruiti su misura per distribuire l’entanglement su grandi distanze, in pratica l’antitesi della tecnologia di largo consumo.
Bland-Hawthorn ha lanciato una collaborazione con John Bartholomew, tecnologo quantistico all’Università di Sydney, e Matthew Sellars, dell’Australian National University di Canberra, per progettare interferometri ottici che evitino di usare fotoni entangled e ripetitori quantistici. L’idea di fondo è semplice.
Considerate due telescopi da otto metri di apertura distanti decine di chilometri. Gli stati quantistici dei fotoni raccolti da ogni telescopio – ossia l’ampiezza e la fase della luce in funzione del tempo – vengono immagazzinati in hard disk quantistici. Gli astronomi devono quindi trasportare fisicamente (su strada, rotaia o per via aerea) questi QHD in un luogo dove gli stati quantistici saranno letti e fatti interferire, generando un interferogramma.
Un frigorifero per fotoni
Bartholomew e collaboratori stanno lavorando su un hard disk quantistico che possa un giorno essere usato per costruire un interferometro di questo tipo. Nel 2015, il gruppo ha ipotizzato che gli stati fotonici possano essere immagazzinati negli stati di spin nucleare di certi ioni in un cristallo di ortosilicato di ittrio drogato all’europio (o, più semplicemente, Eu:YSO).
In teoria, secondo Bartholomew, in un cristallo mantenuto alla gelida temperatura di 2 kelvin, gli stati di spin dovrebbero rimanere coerenti per un mese e mezzo. In una dimostrazione di laboratorio, il suo gruppo è riuscito a ottenere un risultato più modesto ma comunque importante, mostrando di riuscire a mantenere gli stati di spin coerenti per sei ore. “Scherzando – racconta – dicevamo che mettendo il sistema di memoria sul sedile posteriore di una Toyota Corolla e prendendo l’autostrada si sarebbe riusciti ad arrivare lontano.”
Nell’esperimento del 2015, però, non avevano immagazzinato gli stati fotonici in stati di spin per poi recuperarli più tardi. L’esperimento aveva solo dimostrato che gli stati di spin rimanevano coerenti per diverse ore. In un preprint del dicembre 2020, Chuan-Feng Li dell’Università di scienza e tecnologia della Cina e colleghi hanno riferito di aver usato i cristalli di Eu:YSO per immagazzinare stati coerenti di fotoni e di averli recuperati dopo un’ora, verificandone poi la fedeltà attraverso esperimenti di interferenza. “È un’idea eccezionale collegare telescopi ottici distanti usando QHD”, sostiene Li. “Dovrebbe essere fattibile usando le memorie quantistiche basate su Eu:YSO su cui stiamo lavorando. I QHD possono essere trasportati da camion ed elicotteri.”
Anche Nora Tischler, fisica quantistica alla Freie Universität Berlin, che non ha partecipato a nessuno di questi programmi di ricerca, è colpita positivamente dall’idea di usare gli hard disk quantistici per costruire interferometri ottici. “Anche se il progetto è molto impegnativo tecnicamente, occorre sottolineare che può sfruttare tentativi e sviluppi già esistenti e ottenuti in maniera indipendente”, afferma. “La comunità quantistica sta lavorando sodo per ottimizzare le memorie quantistiche con l’obiettivo di costruire le reti quantistiche future.” Queste memorie potrebbero costituire la base degli hard disk quantistici.
Per Bartholomew, il passo successivo è assicurarsi che i QHD tollerino bene le vibrazioni e le accelerazioni che subirebbero durante il trasporto. “È necessario definire l’impatto di queste forze sui sistemi di archiviazione quantistici”, osserva. “Ma possiamo essere ottimisti perché questi stati di spin nucleari sono molto poco sensibili a questo tipo di perturbazioni.”
Anche così, nulla garantisce che la tecnica riesca concretamente ad avere successo. E ha un concorrente. Nel 2019, un gruppo di ricerca guidato da Johannes Borregaard, oggi alla Delft University of Technology nei Paesi Bassi, ha migliorato la soluzione di Gottesman del 2011 ideando un metodo per comprimere l’informazione ricevuta dai telescopi mantenendo solo i fotoni rilevanti e scartando il resto.
Ciò richiederebbe quindi l’interazione con molte meno coppie di fotoni entangled, difficili da produrre al ritmo richiesto dall’interferometria se l’informazione che giunge ai telescopi non viene prima compressa. E, anche con la compressione, linee di basepiù lunghe giustificherebbero comunque la richiesta di ripetitori quantistici. Secondo Borregaard, non è ancora chiaro se saranno gli hard disk quantistici o una combinazione di fotoni entangled e ripetitori quantistici a risolvere i problemi dell’interferometria ottica. “Entrambe le tecniche rappresentano una sfida”, afferma.
Una strada ancora lunga
Anche riuscendo a risolvere l’aspetto quantistico del problema, John Monnier, astronomo dell’Università del Michigan esperto in interferometria ottica e infrarossa, è cauto. Se interferometri ottici con linee di basesempre più lunghe saranno usati per osservare gli oggetti più piccoli e deboli, significa che i singoli telescopi riceveranno ancora meno fotoni per unità di tempo.
Per neutralizzare l’effetto deleterio dell’atmosfera, gli astronomi hanno da un lato la possibilità, molto costosa, di costruire telescopi più grandi, e dall’altro l’opzione eccezionalmente costosa di mandarli nello spazio, dove l’atmosfera non c’è. Altrimenti possono usare l’ottica adattiva, che richiede l’uso della luce di un oggetto celeste luminoso di riferimento vicino alla stella o alla galassia che si sta studiando per correggere le distorsioni atmosferiche. Tuttavia, al contrario della radioastronomia, in cui le fonti luminose sono relativamente frequenti, alle lunghezze d’onda visibili “è rarissimo trovare un oggetto luminoso [vicino a]qualsiasi cosa si voglia studiare”, precisa Monnier.
Può darsi che, in futuro, anche gli interferometri ottici con grandi linee di basepossano usare il tipo di ottiche adattive impiegate oggi per i singoli telescopi, che richiedono di sparare potenti laser per creare stelle di riferimento, o stelle guida, artificiali nel cielo. Tuttavia, le attuali stelle guida a laser non sono adatte a interferometri con una separazione di decine di chilometri. Secondo Monnier, con questi vincoli costruire interferometri ottici richiederà ben altro che i QHD. “[I QHD] potrebbero rappresentare solo un elemento di un futuro molto interessante che prevedrà anche qualche nuovo tipo di stella guida laser per interferometri o grandi telescopi.”
Se quel futuro un giorno vedrà la luce, secondo Bland-Hawthorn si aprirà un’era completamente nuova per l’astronomia ottica, in particolare grazie agli interferometri che useranno i telescopi da 30 e 39 metri di apertura in costruzione rispettivamente alle Hawaii e in Cile.
Bland-Hawthorn prevede inoltre che potremo osservare distintamente le singole stelle che compongono nane bianche come Sirio B e altri sistemi binari, misurare con maggior precisione le loro dimensioni e la velocità intrinseca nel cielo (nota anche come moto proprio) e osservare in dettaglio le stelle che ruotano intorno al buco nero nel centro della nostra galassia. “Seguire il moto delle stelle intorno al buco nero ci offrirà nuovi modi di testare la teoria della relatività generale”, precisa.
Al di fuori della Via Lattea, Bland-Hawthorn pensa che telescopi da 40 metri di apertura collegati con hard disk quantistici saranno in grado di osservare distintamente le stelle delle galassie nell’Ammasso della Vergine e misurare inoltre il moto proprio di queste galassie. “Quest’ultimo esperimento – precisa – ha conseguenze cruciali per capire come queste strutture su grande scala evolvono nel tempo cosmologico a causa della presenza di materia oscura e della manifestazione dell’energia oscura.”
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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” il 19 aprile 2021. Traduzione di Valeria L. Gili, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)