Il permafrost e il risveglio dei batteri metanogeni

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Il permafrost e il risveglio dei batteri metanogeni

Il disgelo del permafrost sta riportando in vita microrganismi che producono metano. Quale può essere il loro contributo al rilascio di questo gas serra è ancora ignoto, ma potrebbe essere enorme. Per scoprirlo, alcuni gruppi di ricerca stanno studiando l’ecologia di questo ambiente inospitale e i rapporti fra l’ampia gamma di batteri, archea e virus che lo abitano
di Monique Brouillette/Nature
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Il prossimo maggio, quando nella Svezia settentrionale le temperature cominceranno a risalire di diversi gradi sopra lo zero, un gruppo di ricercatori tornerà a inoltrarsi nel pantano della torbiera di Stordalen, camminando su cascanti passerelle di legno oltre gruppi di scatole di plexiglass trasparente che sbucano tra i pennacchi dell’erioforo.

Durante la breve stagione vegetativa della torbiera, ogni tre ore i coperchi di quelle scatole si chiuderanno e le scatole si riempiranno di metano, un gas serra molto potente che fuoriesce dal terreno. Dopo 15 minuti, il gas sarà aspirato attraverso un labirinto di tubi fino a un caravan parcheggiato poco distante, dove sarà analizzato. Nel frattempo i ricercatori dovranno fare un lavoro più sporco: infilare delle aste di metallo nel fango melmoso ed estrarne campioni da portare in laboratorio. Qui poi studieranno i microrganismi produttori di metano, sequenziandone il genoma.

Esistono anche altre iniziative per studiare i microrganismi presenti nel permafrost, ma questo progetto, chiamato IsoGenie, è uno degli studi sul campo più ampi e duraturi del settore. “Mettiamo insieme misure geochimiche ed ecologia microbica, due cose che fanno parte di aree completamente diverse, per trovare qualcosa di nuovo”, spiega Scott Saleska, ecologo all’Università dell’Arizona a Tucson e cofondatore del progetto.

Fino a qualche decina di anni fa la torbiera di Stordalen era coperta dal permafrost. Oggi invece, con l’aumento delle temperature globali, è diventata in gran parte un complesso mosaico di paludi e acquitrini erbosi dove rimangono rilievi chiamati palse, nei quali il permafrost permane, parzialmente isolato nella torba secca. A mano a mano che le palse si scongelano, gli scienziati vogliono documentare i cambiamenti nelle comunità microbiche al loro interno.

Strumento per la misurazione dei flussi di gas emanati dal suolo (© Scott Saleska)

Per gran parte della storia dell’umanità, il permafrost è stato il maggior pozzo di assorbimento del carbonio della Terra, conservando per secoli nel ghiaccio varie materie vegetali e animali. Attualmente immagazzina circa 1600 miliardi di tonnellate di carbonio, oltre il doppio di quanto ce n’è nell’atmosfera. Ma con l’aumento delle temperature il permafrost si sta frantumando e gradualmente scompare, lasciandosi alle spalle un panorama drasticamente cambiato.

Tra gli scienziati aumenta sempre più il timore che questo disgelo diventi una vera festa per batteri e archea produttori di anidride carbonica e metano. E anche se i modelli climatici tengono da tempo in considerazione le potenziali emissioni di carbonio del permafrost e dei laghi artici, l’attività microbica al loro interno è sempre stata considerata una scatola nera, un valore che cambia in base alle proprietà fisiche dell’ecosistema, come la temperatura e l’umidità. Ma questo è problematico, afferma Carmody McCalley, biogeochimico al Rochester Institute of Technology di New York. “Se il modello non coglie bene il meccanismo, probabilmente non sarà granché utile per fare previsioni”, spiega.

Grazie all’impegno di alcuni ricercatori per studiare più attentamente gli organismi che vivono in questi ambienti, si stanno iniziando a raccogliere risultati. L’identità dei microrganismi dominanti nel permafrost di transizione è rilevante, per esempio, per i tipi di gas serra emessi. Le profondità dei laghi artici sono forse più sensibili ai cambiamenti climatici di quanto si pensasse, a causa dei tipi di microrganismi presenti al loro interno. Inoltre la disponibilità di ferro e di altre sostanze nutritive nel suolo potrebbe accelerare la produzione di gas serra in alcune località.

Ci sono ancora cose che non sappiamo su come cambierà il panorama in risposta al riscaldamento climatico, e ci sono molte domande senza risposta, per esempio sul ruolo dei virus nel terreno, ma la raccolta di dati sui microrganismi sta portando a una visione più olistica della situazione. “Ci permette di guardare dentro la scatola nera”, afferma Virginia Rich, microbiologa alla Ohio State University a Columbus e seconda cofondatrice di IsoGenie. “Per il permafrost questo è un bisogno molto urgente, perché questi sistemi si stanno sciogliendo davanti ai nostri occhi.”

Una lunga storia

I progetti di ricerca che studiano i microrganismi nel permafrost in fase di scongelamento sono diversi. Alcuni, come l’Alaska Peatland Experiment sovvenzionato dalla US National Science Foundation (NSF), studiano le comunità microbiche in ambienti simili al terreno ricco di carbonio che si trova a Stordalen. Un altro progetto di ampio respiro è il Next-Generation Ecosystem Experiment – Arctic, finanziato dallo US Department of Energy, che studia il terreno ricco di minerali del North Slope in Alaska, nei pressi di Utqiagvik (la località che in passato si chiamava Barrow). L’esercito statunitense porta avanti ricerche sui cambiamenti nelle comunità microbiche all’interno del Permafrost Tunnel, un vano di 110 metri scavato nel terreno ghiacciato di una collina nei pressi di Fairbanks.

Tra gli altri impegni di ampia portata c’è il Center for Permafrost dell’Università di Copenaghen, che effettua analisi metagenomiche su campioni di terreno prelevati in varie località in Groenlandia, Russia, Svezia e nelle Svalbard. Ricordiamo anche un lavoro congiunto portato avanti da ricercatori russi e statunitensi in Siberia nordorientale, che paragona le comunità microbiche in campioni di permafrost di varie epoche, da qualche migliaio a qualche milione di anni fa. Questi ricercatori hanno trovato nel permafrost intatto cianobatteri e microalghe che una volta scongelati possono tornare attivi.

La torbiera di Stordalen è uno dei luoghi più studiati della regione artica e da più di un secolo si raccolgono informazioni dettagliate su temperatura, composizione del suolo e comunità vegetali al suo interno.

La regione di Stordalen, ricca di torbiere, laghi artici e acquitrini (© Jo Uhlbäck)

Bo Svensson, microbiologo dell’Università di Linköping in Svezia, fu uno dei primi ricercatori a misurare la quantità di metano emesso dal suolo, negli anni settanta. Catturava il gas con secchi e barattoli di caffè e doveva passare ore nella torbiera, difendendosi da mosche e zanzare con un denso repellente all’olio di catrame che aveva comprato dalla comunità Sami locale. All’epoca non c’erano servizi né elettricità e spesso Svensson doveva percorrere a piedi i 10 chilometri e più fino alla Abisko Scientific Research Station, portando nello zaino le siringhe piene di gas e il resto dell’attrezzatura.

Oggi, in mezzo all’attrezzatura più moderna, nella torbiera si vede ancora uno dei barattoli di caffè arrugginiti di Svensson, simbolo tangibile di tutti i progressi compiuti dalla scienza. “La torbiera di Stordalen è diventata un centro internazionale”, commenta il microbiologo. La posizione proprio sul fronte del disgelo ne ha fatto un luogo di ricerca ambito per chi si interessa ai cambiamenti climatici. L’arrivo dell’elettricità e di una strada di accesso aperta negli anni ottanta non hanno guastato.

Nel 2010 il lancio del progetto IsoGenie ha portato a Stordalen una nuova serie di strumenti di biologia molecolare. Il progetto, finanziato dallo US Department of Energy, è stato avviato da Rich, che ha sviluppato tecniche per il campionamento del DNA ambientale per studiare i microrganismi degli oceani, e da Saleska, che ha creato sistemi laser per misurare le concentrazioni di gas residui. Negli ultimi dieci anni IsoGenie ha riunito ricercatori di tutta una serie di discipline diverse e ha accumulato una quantità… L’ARTICOLO CONTINUA QUI

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