Le scoperte della scienza sul terremoto devastante che portò al disastro di Fukushima
Il sisma di magnitudo 9 che dieci anni fa sconvolse la regione giapponese di Tohoku, generando lo tsunami che colpì la centrale di Fukushima Dai-ichi, ha lasciato segni geologici evidenti: i dati mostrano uno slittamento del fondo dell’oceano di decine di metri e nell’area si registra tuttora un’attività sismica maggiore della norma e una deformazione della crosta terrestre ancora in corso
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Nel marzo del 2011, le coste della regione giapponese di Tohoku, nel nord-est del paese, furono sconvolte da un terribile terremoto di magnitudo 9, con epicentro in mare, e dallo tsunami che ne è seguito. A distanza di 10 anni, un articolo apparso su “Science” a firma di Shuichi Kodaira e colleghi della Japan Agency for Marine-Earth Science and Technology (JAMSTEC) di Yokohama, passa in rassegna i dati scientifici che si sono accumulati sull’evento in questo lasso di tempo.
L’arcipelago giapponese è una delle regioni più geologicamente instabili del pianeta, poiché si trova in corrispondenza dell’interfaccia di diverse placche tettoniche. Il paese non è dunque nuovo a sismi e tsunami, ma quello del Tohoku del 2011 è stato il primo grande terremoto a essere registrato con un dettaglio sorprendente da una fitta rete sensori sismici, geodetici e di misurazione degli tsunami.
Il sisma ha avuto origine nella Fossa del Giappone, dove avviene la subduzione della Placca del Pacifico sotto la placca continentale, a 30 chilometri di profondità. L’epicentro era in mare, a circa 100 chilometri dalla costa, nella prefettura di Miyagi.
Le trivellazioni condotte nel corso degli anni hanno permesso di raccogliere campioni di materiale nei pressi della zona di rottura del terremoto, nonché di misurare le anomalie termiche dovute al calore prodotto dalla frizione tra le due faglie. Le misurazioni mostrano che la rottura è avvenuta in una porzione poco profonda della placca e che il confine della placca stessa è ricco di deboli strati argillosi: sono proprio le catatteristiche termiche di questi strati sottoposti a pressione la causa dello slittamento eccezionalmente ampio della faglia.
Questo risultato è confermato dai dati geodetici, ricavati misurando da satellite le posizioni reciproche di sensori di posizione. Essi mostrano infatti che dopo il terremoto il fondo dell’oceano in corrispondenza dell’epicentro ha subito uno slittamento di circa 31 metri in direzione sud-est e un sollevamento di tre metri. Le mappe batimetriche, che registrano le profondità dell’oceano, hanno permesso di confrontare il fondo oceanico prima e dopo il sisma, concludendo che lo slittamento ha raggiunto i 50 metri lungo l’asse della Fossa del Giappone.
Per quanto riguarda lo tsunami, le sue tracce sono state ritrovate fino a 20 metri di quota sul livello del mare nella regione di Tohoku e fino a 10 metri lungo un fronte di 530 chilometri di costa nel Giappone centrale e nordorientale. Questi numeri ne fanno uno dei più gravi tsunami mai riportati dalle cronache storiche e ricostruiti in base alle registrazioni geologiche.
In seguito al terremoto e allo tsunami, 18.550 persone sono risultate decedute o disperse, mentre i danni a edifici, infrastrutture, agricoltura foreste attività di pesca e altro hanno raggiunto la cifra di 130 miliardi di euro. A ciò vanno aggiunti i danni all’impianto nucleare di Fukushima e alla contaminazione radioattiva dell’ambiente che ne sono derivate.
Ma le indicazioni forse più importanti che emergono dagli studi riguardano la condizione geologica attuale della zona e i possibili rischi per il futuro. I dati mostrano infatti che la deformazione della crosta continuano tuttora. Inoltre, l’evento del 2011 sembra aver portato a una maggiore attività sismica nel Giappone orientale, e la deformazione della crosta terrestre nella zona è ancora in corso.
La possibilità che nel prossimo futuro nella Fossa del Giappone si verifichi un evento simile a quello del terremoto di Tohoku, cioè di magnitudo di circa 9, è molto bassa, secondo gli autori. Studi condotti in passato hanno però mostrato che i megasismi come questo possono essere seguiti da sismi di altro tipo, e occorreranno quindi ulteriori studi per valutarne il rischio.