Captato, forse, per la prima volta, un nanobrillamento solare

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Captato, forse, per la prima volta, un nanobrillamento solare

Un gruppo di ricercatori, analizzando i dati di Iris e Sdo, potrebbe essere riuscito a osservare per la prima volta un nanobrillamento: un fenomeno probabilmente responsabile delle vertiginose temperature della corona solare. Il risultato è stato pubblicato su Nature Astronomy
di Luca Nardi   
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I nanobrillamenti sono piccole eruzioni di materiale che – forse – avvengono negli strati esterni della nostra stella. Fratelli minori dei brillamenti veri e propri, furono ipotizzati nel 1972 da Eugene Parker per dare una spiegazione alle elevatissime temperature della corona solare.

L’ingradimento progressivo (da sinistra a destra) di uno dei candidati nanobrillamenti studiati nell’articolo. Crediti: Nasa

Le particelle che compongono la corona solare, nonostante siano le più lontane dal nucleo del Sole, hanno infatti una temperatura media di un milione di gradi Celsius; per confronto la fotosfera, la parte del Sole che costituisce il disco solare vero e proprio, di gradi ne raggiunge appena seimila. Un vero e proprio enigma solare per risolvere il quale, nel corso dei decenni, sono state avanzate varie ipotesi, non sempre del tutto soddisfacenti soprattutto dal punto di vista delle conferme sperimentali.

Le cose potrebbero cambiare grazie allo studio guidato da Shah Bahauddin della University of Colorado che potrebbe aver osservato per la prima volta un nanobrillamento. Il condizionale è d’obbligo perché osservare un’eruzione di materiale di piccole dimensioni non è sufficiente per definirlo nanobrillamento, il quale richiede che siano rispettate almeno due caratteristiche: la prima è quella di essere guidato dal campo magnetico solare attraverso una cosiddetta riconnessione magnetica, un processo in cui una rapida ridistribuzione delle linee che descrivono il campo magnetico può causare un improvviso riscaldamento del materiale solare; la seconda è che il nanobrillamento deve essere in grado di trasferire energia alla corona e non unicamente alla regione che circonda la riconnessione magnetica. Se non ci sono queste due caratteristiche, il fenomeno non è un nanobrillamento e comunque non risolve l’enigma del riscaldamento coronale.

I ricercatori hanno utilizzato i dati dei satelliti della Nasa Iris (Interface Region Imaging Spectrograph) e Sdo (Solar Dynamics Observatory) scoprendo e studiando delle piccole strutture ad anello legate all’attività magnetica situate nella zona di transizione tra la cromosfera e la corona. All’interno di queste strutture la temperatura è elevatissima rispetto al circondario e, cosa ancora più importante, dopo circa 20 secondi dalla loro comparsa, una regione della corona si scalda a milioni di gradi celsius.

Alcuni degli eventi osservati dai ricercatori nella zona di transizione del Sole. Crediti: Nasa

«Abbiamo visto l’aumento di luminosità e poi la corona scaldarsi fino a vari milioni di gradi» dice Bahauddin. «Quello che abbiamo osservato era un riscaldamento e un trasferimento di energia alla corona» Nello studio Bahauddin e colleghi mostrano dieci eventi di questo tipo, ma sono prudenti nel chiamarli nanobrillamenti e soprattutto nell’affermare che questa sia la tanto agognata soluzione all’enigma della corona solare: per esserne sicuri occorre infatti continuare le osservazioni per capire se questi eventi sono abbastanza frequenti da riuscire a riscaldare la corona in maniera diffusa e continuativa.

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