Le piattaforme glaciali sono estremamente vulnerabili al riscaldamento globale

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Le piattaforme glaciali sono estremamente vulnerabili al riscaldamento globale

Il rapido collasso delle piattaforme glaciali antartiche riversa nell’oceano iceberg giganteschi e masse enormi d’acqua, accelerando l’aumento del livello dei mari. Un’ingegnosa combinazione di imaging satellitare, apprendimento automatico e analisi dello stress rivela ora quali sono le piattaforme più a rischio di disintegrarsi a causa del riscaldamento atmosferico
di Jeremy N. Bassis/Nature
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Nel 2002, una parte significativa della piattaforma glaciale Larsen B – una delle piattaforme galleggianti di ghiaccio che circondano la calotta glaciale antartica – si disintegrò in meno di sei settimane. Di conseguenza, i ghiacciai da cui era alimentata defluirono più rapidamente nell’oceano. Né la velocità né i tempi della disintegrazione erano stati previsti dai modelli delle piattaforme che veninvano usati per prevedere l’innalzamento futuro del livello dei mari.

I glaciologi hanno passato gli ultimi vent’anni a osservare le conseguenze della disintegrazione delle piattaforme per trarne lezioni utili a prevedere quale di esse sarà la prossima a cedere e come ciò potrà contribuire al deflusso dei ghiacci continentali nell’oceano.

Un progresso in questa direzione arriva da uno studio illustrato su “Nature” da Ching-Yao Lai e collaboratori, che hanno combinato teorie sulla formazione delle fratture e tecniche di apprendimento automatico per determinare quali porzioni delle piattaforme hanno maggiori probabilità di collassare, provocando un intenso drenaggio dei ghiacci continentali.

Le piattaforme trattengono il flusso verso l’oceano dei ghiacci delle calotte che insistono sulla terraferma. Il confine tra una calotta di ghiaccio che poggia sulla terraferma e la piattaforma galleggiante è detto linea di galleggiamento (grounding line). La perdita di parti di piattaforma attorno alle zone della calotta vicine al punto in cui, superata la linea di galleggiamento, il substrato roccioso si inabissa nell’acqua, può portare a un ciclo irreversibile di aumento del riversamento di ghiaccio continentale nell’oceano. Il processo, chiamato ciclo di instabilità della calotta glaciale marina, contribuisce direttamente all’innalzamento del livello globale dei mari.

I due principali indiziati della distruzione delle piattaforme a cui si assiste oggi sono il riscaldamento dell’atmosfera e quello dell’oceano, ma nel collasso della piattaforma Larsen B il sospettato numero uno è il riscaldamento atmosferico.

La sua disintegrazione, insieme a quella delle piattaforme adiacenti, fu preceduta da un significativo riscaldamento dell’aria che fece sciogliere la parte superiore del ghiaccio. L’acqua di fusione inondò la superficie della piattaforma, formando numerose pozze che riempirono le fratture (o crepacci) presenti nel ghiaccio, che fu sottoposto a ulteriori stress; queste sollecitazioni, a loro volta, fecero diventare i crepacci più profondi. Si ritiene che questi crepacci abbiano attraversato l’intero spessore del ghiaccio, dalla superficie alla base, spezzandolo in un processo detto idrofratturazione..

Pozze di acqua di fusione sulla superficie di una piattaforma glaciale (© Jenny Turton/British Antarctic Survey) 

È possibile cercare di valutare la probabilità dei futuri collassi partendo da una mappa dei crepacci esistenti nelle piattaforme? È ciò che hanno fatto Lai e colleghi, che hanno usato un algoritmo di apprendimento automatico per analizzare le immagini satellitari di tutte le piattaforme glaciali antartiche e mappare con precisione la posizione dei crepacci. Hanno così ottenuto un inedito insieme di dati che rivela le zone in cui il ghiaccio è visibilmente fratturato e quelle in cui è ancora intatto.

Gli autori hanno quindi applicato una teoria proposta già da qualche decennio, la meccanica della frattura lineare elastica,  per identificare le zone in cui gli stress a cui erano sottoposte le piattaforme di ghiaccio erano abbastanza forti da penetrarne tutto lo spessore, e infine hanno confrontato i risultati con i dati sulle fratture osservate.

I ricercatori hanno visto che nella maggior parte dei casi le sollecitazioni che tendono ad allargare i crepacci superficiali non riempiti d’acqua oggi sono troppo piccole per far sì che attraversino l’intero spessore del ghiaccio. Inoltre, nelle poche zone della piattaforma in cui l’acqua si accumula con regolarità sulla superficie, spesso lo stress è di tipo compressivo, e dunque ostacola la possibilità che l’acqua riesca ad arrivare per idrofratturazione fino al fondo della piattaforma di ghiaccio. Nelle attuali condizioni, queste regioni delle piattaforme sono stabili, e non è probabile che subiscano collassi improvvisi.

Alla luce dell’aumento delle temperature atmosferiche in atto, però, ci si aspetta che aumentino le porzioni delle piattaforme in cui avviene la fusione del ghiaccio superficiale. Lai e collaboratori hanno trovato che fino al 60 per cento della superficie delle piattaforme che bloccano il deflusso delle calotte glaciali potrebbe diventare instabile se fosse inondata dall’acqua di fusione, proprio perché i crepacci si riempirebbero d’acqua.

Immagine satellitare del gigantesco iceberg staccatosi dalla piattaforma Larsen C nell’estate del 2017 (© NASA Earth Observatory/J. Stevens/Landsat/USGS) 

Nel complesso, i risultati degli autori indicano con precisione quali parti delle piattaforme sono più vulnerabili al riscaldamento atmosferico, e mostrano che ampie sezioni di esse, oggi stabili, potrebbero collassare con il continuo innalzamento delle temperature atmosferiche.

Lai e collaboratori si sono concentrati sull’indiziato numero uno, il riscaldamento atmosferico, ma continua a non essere chiaro quanto sia stretto il legame tra il destino delle piattaforme glaciali e il sospettato numero due: il riscaldamento dell’oceano. Al momento, su gran parte della calotta glaciale antartica le temperature atmosferiche restano troppo fredde per promuovere in modo sostanziale la fusione del ghiaccio superficiale. Il riscaldamento oceanico, per contro, è stato messo in relazione con l’assottigliarsi e il ritiro delle piattaforme della baia del Mare di Amundsen, nell’Antartide occidentale.

Questo vale in particolare per le piattaforme alimentate dai ghiacciai Pine Island e Thwaites: l’acqua relativamente calda dell’oceano sta rapidamente assottigliando le piattaforme, scavando profondi canali lungo la loro faccia inferiore. Questi canali sono stati associati a un incremento della fratturazione della piattaforma; ma d’altra parte può anche accadere che l’acqua di fusione superficiale si scarichi in depressioni della superficie associate ai canali, formando flussi che rimuovono con grande efficacia l’acqua dalla superficie della banchisa, impedendo così che sia inondata in modo diffuso. Quello che accade alla sommità della banchisa, insomma, è strettamente legato a ciò che accade alla sua base.

Sono stati usati modelli sempre più raffinati per simulare (o riprodurre) la ritirata e la disintegrazione delle banchise in risposta al riscaldamento dell’atmosfera. È tuttavia necessario capire in modo più approfondito gli effetti sia dell’oceano che dell’atmosfera per prevedere con precisione il destino delle piattaforme in un clima che si riscalda, perché esse sono vulnerabili agli attacchi sia da sopra che da sotto.

In altre parole, i due principali indiziati della destabilizzazione delle banchise non agiscono isolatamente: sono complici.

L’autore
Jeremy N. Bassis lavora al Department of Climate and Space Sciences dell’Università del Michigan ad Ann Arbor.

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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Nature” il 26 agosto 2020. Traduzione di Alfredo Tutino, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

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