Il COVID19 è mutato: i ceppi più diffusi infettano meglio le cellule e forse sono anche più contagiosi

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Il COVID19 è mutato: i ceppi più diffusi infettano meglio le cellule e forse sono anche più contagiosi

A causa di una mutazione riscontrata nella proteina S del coronavirus SARS-CoV-2, oggi i ceppi dominanti hanno una maggiore capacità di infettare le cellule umane e forse sono più contagiosi, ma non determinano sintomi più gravi della variante originale del patogeno. A suggerirlo i risultati di uno studio pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Cell.
di Andrea Centini
scienze.fanpage.it

I ceppi di coronavirus SARS-CoV-2 che oggi rappresentano il principale “motore” della pandemia differiscono da quello originale emerso in Cina, alla fine dello scorso anno. Presentano infatti un mutazione specifica a livello della proteina S (o Spike), che secondo un nuovo studio – basato su una ricerca preliminare pubblicata all’inizio di maggio – permetterebbe al coronavirus di infettare più agevolmente le cellule umane. La variante mutata sarebbe inoltre maggiormente trasmissibile e responsabile di una carica virale più elevata nei positivi, ma non di condizioni cliniche più gravi per i pazienti. Sono tutte ipotesi che andranno confermate da indagini più approfondite.

A determinare che i ceppi di coronavirus attualmente dominanti sono una versione mutata è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati americani del Laboratorio Nazionale di Los Alamos, in stretta collaborazione con i colleghi del Centro di Ricerca Biomedica dell’Università di Sheffield (Gran Bretagna), dell’Istituto sui Vaccini dell’Università Duke, dell’Istituto di Immunologia di La Jolla e dello Sheffield COVID-19 Genomics Group. Gli scienziati, coordinati dalla dottoressa Bette Korber, ricercatrice del Dipartimento di Biologia Teorica e Biofisica presso il laboratorio di Los Alamos, all’inizio di maggio pubblicarono una ricerca preliminare nella quale sottolineavano che si stava diffondendo una variante genetica più contagiosa del coronavirus chiamata D614G, a causa di una mutazione nella sua proteina S. Quest’ultima, una glicoproteina che forma le strutture a “ombrellino” attorno al pericapside (guscio esterno) del patogeno, viene sfruttata per legarsi al recettore ACE2 delle cellule umane, disgregare la parete cellulare, far riversare all’interno l’RNA virale e dare inizio alla replicazione e dunque all’infezione (la COVID-19).

Una mutazione alla proteina S è considerata particolarmente importante proprio perché è alla base del processo infettivo, e non è un caso che molti vaccini candidati puntino a colpirla. Qualora dovesse mutare troppo, infatti, le “armi” anti COVID in sperimentazione potrebbero non essere efficaci; ecco perché una ricerca come quella guidata dal Laboratorio Nazionale di Los Alamos risulta molto preziosa. I risultati pubblicati a maggio furono tuttavia criticati durante il processo di revisione tra pari, e la dottoressa Korber e colleghi hanno così condotto ulteriori esperimenti per suffragare il proprio lavoro.

Innanzitutto, la ricerca originale si basava su 6mila sequenze genetiche del SARS-CoV-2 pubblicate sul database GISAID (Global Initiative for Sharing All Influenza Data), mentre la revisione su ben 30mila. In secondo luogo sono stati coinvolti 999 pazienti ricoverati negli ospedali britannici, contro i 470 della versione preliminare. Grazie a un numero superiore di campioni e ad analisi geografiche più raffinate per verificare la diffusione del ceppo D614G (legato a un semplice cambiamento tra l’amminoacido dell’acido aspartico e la glicina), è stato dimostrato che la circolazione della variante mutata era in costante aumento e sempre più capillare, indipendentemente dalle restrizioni ai viaggi. Korber e colleghi hanno supportato il dato della maggiore infettività attraverso esperimenti con cellule umane in provetta, nei quali è stato osservato che i ceppi con la glicina al posto dell’acido aspartico infettano le cellule umane dalle 3 alle 6 volte più efficacemente.

Le varianti circolanti sembrano dunque più “adattate” a infettarci, ma come specificano gli stessi autori dello studio, al momento non è possibile confermare se ciò catalizzi anche la trasmissibilità dell’infezione. Talvolta chi è infettato da D614G presenta una carica virale superiore rispetto a chi è stato infettato dalla versione “originale” del SARS-CoV-2, e questo potrebbe essere legato alla maggiore capacità infettiva. Fortunatamente quest’ultima non sembra essere correlata a un aggravamento della sintomatologia. I dettagli della ricerca “Tracking changes in SARS-CoV-2 Spike: evidence that D614G increases infectivity of the COVID-19 virus” sono stati pubblicati sull’autorevole rivista scientifica Cell.

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