Ricercatori italiani spiegano la correlazione tra inquinamento e letalità del coronavirus nel Nord Italia

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Ricercatori italiani spiegano la correlazione tra inquinamento e letalità del coronavirus nel Nord Italia

Dario Caro: «Fino ad ora gli unici fattori presi in considerazione erano il differente modo di contabilizzare contagiati e deceduti, e l’anzianità della popolazione. Ma lo stato di salute iniziale di quelle popolazioni è anche indotto dal livello di inquinamento atmosferico». Lo studio è firmato da ricercatori italiani dell’Università di Siena e della Aarhus University
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Il ruolo dell’inquinamento atmosferico nella pandemia da coronavirus Sars-Cov-2 è oggetto di crescente interesse da parte della comunità scientifica, con i ricercatori italiani impegnati in prima linea: la rivista scientifica Environmental Pollution ha pubblicato oggi lo studio Can atmospheric pollution be considered a co-factor in extremely high level of SARS-CoV-2 lethality in Northern Italy?, nel quale un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Siena e della Aarhus University (Danimarca) ha messo in correlazione l’alta letalità del coronavirus registrata nelle zone della Lombardia e Emilia-Romagna con l’inquinamento.

«Attraverso un’indagine scientifica abbiamo messo in correlazione letalità (ovvero il rapporto tra deceduti e contagiati, ndr) e inquinamento nelle zone più colpite dal coronavirus – spiega il principale ideatore dell’articolo Dario Caro, ricercatore dell’Aarhus University con radici nel gruppo di Ecodinamica dell’Università di Siena – In particolare, ci siamo chiesti quale fossero le condizioni iniziali delle popolazioni che vivono in quelle aree così inquinate, e se queste condizioni potessero essere un co-fattore nell’alta mortalità registrata».

Secondo i dati raccolti dalla Protezione civile italiana e raccolti nello studio, al 21 marzo la letalità registrata in Lombardia ed Emilia Romagna «era attorno al 12% mentre nel resto d’Italia era a circa il 4,5%». I dati sono in continua evoluzione e ancora molto aleatori, come dimostrano quelli forniti dalle stesse autorità preposte alla loro raccolta ed elaborazione; la letalità media in Italia registrata dall’Istituto superiore di sanità al 2 aprile è salita all’11,8%, segnando una distanza che rimane molto marcata rispetto al dato medio globale (5,4%, secondo quanto riferito il 4 aprile dall’Istituto Spallanzani di Roma) ed europeo (7,5%). Un contesto nazionale che rimane fortemente legato a quello presente nel nord del Paese, con la sola Lombardia che al 5 aprile assomma 8.905 decessi (e l’Emilia-Romagna 2.051) su un totale nazionale pari a 15.887.

Al contempo, l’Air quality index elaborato dall’Agenzia europea dell’ambiente (e basato sulle concentrazioni di PM10, PM2.5, O3, SO2 e NO2) conferma che l’area che copre la Lombardia e l’Emilia Romagna risulta «la più inquinata d’Italia (e una delle più inquinate d’Europa)».  Negli ultimi anni la qualità dell’aria è in miglioramento, ma ciò non toglie che circa il 95% degli europei sottoposti a sforamenti contemporanei nelle emissioni di particolato, biossido di azoto e ozono vive ancora (secondo i dati raccolti dall’Agenzia europea dell’ambiente) nel nord del nostro Paese. Una realtà che secondo i ricercatori  pesa anche sugli effetti della pandemia.

«Sappiamo che quelle zone sono tra le più inquinate d’Europa, specie per inquinanti atmosferici come i particolati (PM10 e PM2.5) e altri inquinanti (NO2, SO2 e O3). Ci siamo quindi chiesti – argomenta Caro – da quali e quante malattie pregresse fossero affette le popolazioni che hanno sempre vissuto in quelle aree e se queste malattie pregresse potessero avere avuto quindi un ruolo nell’alta letalità: fino ad ora, gli unici fattori presi in considerazione erano stati il differente modo di contabilizzare i contagiati e i deceduti, e l’anzianità della popolazione. Il nostro articolo non vuole assolutamente negare questi fattori ma ne vuole aggiungere un altro altrettanto importante: ovvero lo stato di salute iniziale di quelle popolazioni che è anche indotto dal livello di inquinamento atmosferico».

Il decesso per Covid-19 avviene solitamente a causa di una grave polmonite, la cosiddetta sindrome da distress respiratorio acuto (Ards), a sua volta causata da un rilascio massivo di citochine infiammatorie. Esse sono dei messaggeri cellulari che normalmente servono a neutralizzare virus e batteri, ma che possono determinare un’aberrante risposta infiammatoria dannosa per il polmone stesso. L’originalità dell’analisi, condotta insieme all’UOC Reumatologia dell’Azienda ospedaliera universitaria senese (prof. Bruno Frediani, dott. Edoardo Conticini) sta nell’evidenziare che in popolazioni sottoposte ad alti livelli di inquinamento, tali citochine infiammatorie sono persistentemente elevate anche nei soggetti sani, rappresentando un possibile cofattore alla base della maggiore letalità delle polmoniti da Sars-Cov-2 nelle regioni italiane con alti livelli di inquinamento.

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