Cosa sappiamo davvero sulla relazione tra inquinamento atmosferico e coronavirus?

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Cosa sappiamo davvero sulla relazione tra inquinamento atmosferico e coronavirus?

Le misure per il contenimento dell’epidemia stanno riducendo lo smog? L’inquinamento atmosferico può facilitare la diffusione dei contagi, o rendere più difficile la guarigione dei soggetti colpiti? Una panoramica sulle conoscenze a disposizione
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Da una parte le misure progressivamente imposte dalle pubbliche autorità per contenere la pandemia da coronavirus Sars-Cov-2 stanno riducendo i livelli di inquinamento atmosferico (in particolare le concentrazioni di NO2), dall’altra l’epidemia potrebbe aver trovato nel particolato atmosferico un inaspettato alleato per diffondersi: la relazione tra inquinamento e Covid-19 sembra dunque intrecciarsi su più livelli, ma la comunità scientifica è ancora lontana da una posizione univoca in materia.

Più nel dettaglio, per quanto riguarda gli effetti delle misure di contenimento dell’epidemia sulle concentrazioni di biossido d’azoto (NO2) presenti in atmosfera le osservazioni raccolte dalla comunità scientifica iniziano ad essere assai robuste. Copernicus – ovvero il programma di punta per l’osservazione della Terra offerto dall’Unione europea – ha registrato un calo sensibile nei livelli di PM2.5 registrati in Cina, e più recentemente ha documentato una riduzione nelle concentrazioni di NO2 nell’Italia del nord; una correlazione, quest’ultima, rilevata anche dall’Agenzia spaziale europea e dall’Istituto meteorologico finlandese, fino all’ultima conferma arrivata oggi direttamente dal Sistema nazionale di protezione ambientale, che rileva una «significativa» riduzione (nell’ordine del 50% in Pianura Padana) di «uno dei principali inquinanti dell’atmosfera, il biossido di azoto (NO2), a seguito delle misure introdotte dal Governo per l’emergenza coronavirus».

Più incerto invece il ruolo dell’inquinamento atmosferico in qualità di “veicolo” per l’epidemia. Un position paper pubblicato da 12 ricercatori italiani ipotizza che il particolato atmosferico (PM10, PM2.5) possa agire sia come carrier (ovvero come vettore di trasporto) del virus sia che abbia dato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia in Pianura Padana, una delle aree più inquinate d’Europa. La Società italiana di aerosol (Ias), di fronte a questo position paper, ha dichiarato però che si tratta di conoscenze «ancora molto limitate, e ciò impone di utilizzare la massima cautela nell’interpretazione dei dati disponibili», bollando come «parziale e prematura l’affermazione che esista un rapporto diretto tra numero di superamenti dei livelli di soglia del PM e contagi da Covid-19», e ritenendo che «un eventuale effetto dell’inquinamento da PM sul contagio da Covid-19 rimanga – allo stato attuale delle conoscenze – una ipotesi che dovrà essere accuratamente valutata con indagini estese ed approfondite».

Lo stesso gruppo di lavoro che ha pubblicato il position paper del resto ha da subito resa esplicita la necessità di ulteriori analisi per contribuire ad una comprensione del fenomeno più approfondita, ma conferma la solidità del proprio lavoro: «Il nostro studio – replicano – è condotto con metodo scientifico, basandosi su evidenze. La correlazione è presente. Che i virus si diffondano nell’aria trasportati dalle polveri trova riscontro nella letteratura scientifica. Come trova riscontro il fatto che restino attivi per diverse ore». Anche Guido Visconti, professore emerito dell’Università dell’Aquila ed esperto di fisica dell’atmosfera, mette in guardia sui legami tra inquinamento e diffusione del coronavirus, mentre Fabrizio Bianchi, capo dell’Unità di epidemiologia ambientale e registri di patologia all’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, commenta il lavoro dei 12 ricercatori affermando che «i risultati, basati su correlazione semplice tra livelli di PM10 e numero di casi di Covid–19 per provincia, richiedono di essere confermati e approfonditi mediante un disegno di studio più evoluto che tenga conto anche della disomogeneità territoriale del tempo di propagazione virale; tuttavia concludere con il supporto a favore di misure restrittive di contenimento dell’inquinamento ritengo sia un monito su cui concordare».

Alcuni ricercatori come Sara De Matteis, dell’Università di Cagliari e membro del Comitato per la salute ambientale della Società Respiratoria europea, pongono invece l’accento sull’inquinamento atmosferico come elemento in grado di portare i soggetti esposti a una maggiore fragilità di fronte al contagio: «I pazienti con malattie croniche causate o aggravate da un’esposizione prolungata all’aria inquinata sono svantaggiati nel combattere le infezioni ai polmoni – si legge in un’intervista dedicatale dal The Guardian – e sono dunque a maggior rischio di non farcela. Questo è probabile anche nel caso di esposizione a Covid-19». Un’ipotesi sulla quale, anche in questo caso, la Ias mantiene un approccio cauto: «È noto che l’esposizione, più o meno prolungata, ad alte concentrazioni di PM aumenta la suscettibilità a malattie respiratorie croniche e cardiovascolari e che questa condizione può peggiorare la situazione sanitaria dei contagiati. Queste alte concentrazioni sono frequentemente osservate nel nord Italia, soprattutto nella pianura Padana, durante il periodo invernale. Tuttavia, ad ora non è stato dimostrato alcun effetto di maggiore suscettibilità al contagio al Covid-19 dovuto all’esposizione alle polveri atmosferiche».

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