Oltre un milione di uccelli uccisi da un’ondata di calore estrema nel Pacifico settentrionale
Tra il 2015 e il 2016 circa 62mila carcasse di urie comuni, una specie di uccello marino, sono state recuperate lungo la costa occidentale degli Stati Uniti, tra l’Alaska e la California. Partendo da questi numeri e combinandoli con quelli delle colonie e delle precedenti morie, è stato stabilito che sono morti oltre un milione di esemplari. A sterminarli un’ondata di calore estrema nelle acque del Pacifico, che li ha condannati a morire di fame.
di Andrea Centini
scienze.fanpage.it
Un’anomala ondata di calore verificatasi nelle acque dell’Oceano Pacifico nordorientale tra il 2014 e il 2016 ha sterminato oltre un milione di uccelli marini di una singola specie, più moltissimi di altre. A morire sono state principalmente le ùrie comuni (Uria aalge), uccelli appartenenti alla famiglia degli alcidi cui fanno parte anche le alche e le simpatiche pulcinelle di mare. Si è trattato della peggior moria di uccelli marini mai registrata nella storia, che ha avuto un durissimo colpo sulle popolazioni della specie coinvolta.
A calcolare il numero di uccelli morti dalla devastante ondata di calore, che gli scienziati hanno chiamato col nome poco rassicurante di “The Blob”, è stato un team di ricerca americano guidato da studiosi dell’Università di Washington, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dello U.S. Fish and Wildlife Service, del Farallon Institute di Petaluma (California) e dell’Alaska Science Center presso lo U.S. Geological Survey. Gli scienziati, coordinati dalla professoressa Julia Parrish, docente alla School of Aquatic and Fishery Sciences dell’ateneo statunitense, sono giunti alla drammatica conclusione partendo dal numero di carcasse di uccelli morti recuperati lungo la costa occidentale degli Stati Uniti tra il 2015 e il 2016, ben 62mila. In alcuni casi ne sono state trovate ammassate a centinaia tutte assieme, lungo le spiagge e le scogliere che corrono tra l’Alaska e la California. Poiché una buona parte degli animali morti non giunge arriva, dal numero di esemplari presenti nelle colonie di uccelli marini e da quello degli “spiaggiamenti” rilevati in passato è stato possibile calcolare quelli uccisi dall’ondata di calore. Si è trattato di un vero e proprio sterminio.
Un’uria trovata morta. Credit: COASST
Ma come ha fatto l’oceano più caldo a uccidere così tanti uccelli tutti assieme? La ragione, spiegano gli esperti, è stata principalmente una: la fame. Praticamente tutte le carcasse raccolte erano emaciate e presentavano segni evidenti di denutrizione; le urie, infatti, non si sono potute nutrire per lungo tempo e ciò ha determinato la mattanza. La professoressa Parrish in un comunicato stampa pubblicato dall’Università di Washington ha sottolineato che le alte temperature hanno scombinato gli equilibri della catena alimentare, facendo salire alle stelle il metabolismo dei pesci pelagici competitori degli uccelli marini, come il merluzzo pacifico, il Sander vitreus (walleye in inglese) e il pollock. A causa dell’aumentato metabolismo hanno avuto bisogno di consumare molte più aringhe, sardine e giovani salmoni rispetto al normale, facendo così piazza pulita per gli uccelli che sono rimasti senza fonte di sostentamento. Le alte temperature e la pressione predatoria avrebbero reso indisponibili le fonti di cibo per le urie, condannandole a una morte lenta e atroce.
Una uria con un pesce. Credit: Jane Dolliver
Gli scienziati sottolineano che il fenomeno delle “chiazze” di acqua calda anomale è aumentato sensibilmente nell’ultimo secolo e continuerà ad aumentare, di pari passo col riscaldamento globale catalizzato dai cambiamenti climatici. In questo caso il fenomeno che ha colpito il Pacifico nordorientale è stato ulteriormente esacerbato dal passaggio di El Nino tra il 2015 e il 2016. Parrish e colleghi ritengono che simili eventi di massa diventeranno più frequenti in futuro, mettendo in serissimo pericolo la sopravvivenza di molte specie di uccelli marini e non solo. I dettagli della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PloS ONE.