Come potremmo sopravvivere all’apocalisse solare?
I progressi della scienza lasciano intravedere già oggi alcuni possibili strade per farci sopravvivere all’invecchiamento e alla morte del Sole. Tuttavia, è più probabile che la nostra civiltà si autodistrugga ben prima che la nostra stella diventi troppo calda
di Abraham Loeb/Scientific American
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L’Ecclesiaste afferma che “non c’è niente di nuovo sotto il Sole”, ma non è esatto. Fra circa un miliardo di anni il Sole arriverà a splendere con tanta forza da far evaporare gli oceani della Terra, il che desta serie preoccupazioni in quelli che tendono a guardare molto avanti: come il giornalista radiofonico della BBC che ha chiesto la mia opinione su come si potrebbe far fronte a questo pericolo per il futuro dell’umanità.
La soluzione più semplice che mi è venuta in mente è spruzzare nell’atmosfera delle particelle che formino una sorta di copertura che rifletta la luce solare e rinfreschi la Terra, con effetti simili a quelli delle grandi eruzioni vulcaniche naturali, di una guerra nucleare o dell’impatto con un asteroide (la stessa tecnica è stata proposta per limitare il riscaldamento globale di origine antropica). Bloccare la luce solare in questo modo è un po’ come usare gli occhiali da sole per moderare l’impatto delle radiazioni ultraviolette dannose sui nostri occhi.
Qualche altro miliardo di anni più tardi, però, quando il Sole diventerà ancor più caldo e infine si espanderà fino a diventare una stella gigante rossa, tanto grande da assorbire la Terra al suo interno, per la nostra civiltà non resterà altra scelta che trasferirci in una zona del sistema solare più lontana dal Sole. Dato però che le proprietà immobiliari naturali, le lune e i pianeti, sono disponibili solo in certe posizioni, e visto anche che la luminosità del Sole cambierà in modo progressivo, sarebbe saggio fabbricare una gigantesca struttura artificiale in grado di manovrare per collocarsi in ogni momento alla distanza orbitale ottimale.
Poter regolare la nostra distanza dalla “fornace” a seconda dei cambiamenti della sua luminosità sarebbe utile soprattutto verso la fine, quando il Sole farà marcia indietro e diventerà considerevolmente meno brillante, trasformandosi in una nana bianca. La zona abitabile del sistema solare si ridurrà di un fattore 100 rispetto all’attuale distanza tra Terra e Sole, fino a dimensioni paragonabili a quelle attuali della nostra stella.
Ovviamente, il complesso industriale mobile di cilindri metallici e macchinari che dovrebbe costituire il nostro futuro habitat sarebbe una versione colossale, riveduta e corretta dell’attuale Stazione spaziale internazionale. Sarebbe un mondo artificiale, non certo bello come il puntolino azzurro su cui viviamo adesso, con verdi foreste e mari blu. Ma dato che agli esseri umani moderni sono bastati appena 100.000 anni per adattarsi dalla vita nelle savane e nelle foreste d’Africa all’affollamento nei miniappartamenti di Manhattan, ci possiamo ragionevolmente aspettare che riusciranno a passare da Manhattan alla vita nello spazio in un lasso di tempo diecimila volte più lungo.
Alla fine, bisognerà pensare ad andare nello spazio che si estende al di là del sistema solare. La soluzione a lungo termine ai pericoli che minacciano la nostra stessa esistenza sarà quella di evitare di tenere tutte le nostre uova nello stesso paniere. Dovremmo fare tante copie geneticamente identiche della flora e fauna cui teniamo e diffonderle verso altre stelle al fine di evitare il rischio di essere annichiliti da una catastrofe locale. Potremmo scegliere come destinazioni qualche pianeta abitabile intorno a stelle vicine, come Proxima b o altri ambienti desiderabili. Il progetto Breakthrough Starshot è la prima iniziativa ben finanziata che punta ad attraversare distanze interstellari in tempi brevi.
Il passaggio alla diffusione di molteplici copie del nostro materiale genetico sarebbe paragonabile alla rivoluzione dovuta all’invenzione del torchio tipografico, con la produzione di massa di copie della Bibbia da parte di Gutenberg, che le distribuì in tutta l’Europa. Una volta prodotte molte copie del libro, ogni singola copia perse il suo valore di oggetto unico e prezioso. Così, una volta imparato a produrre la vita sintetica in laboratorio, si potrebbe prendere spunto da Gutenberg e distribuire in giro per l’universo delle “stampanti a DNA” che facciano tante copie del genoma umano partendo dai materiali grezzi disponibili sulla superficie di altri pianeti, in modo che nessuna copia sia di per se essenziale per preservarne l’informazione.
Ma il giornalista della BBC non ha lasciato che me la cavassi così facilmente: “Ma che ne sarà delle nostre vite come individui? La maggior parte della gente si preoccupa di se stessa. La sua soluzione non assicura la sicurezza delle singole persone e quindi non basta a tranquillizzarci”.
La mia risposta è stata semplice. Nella vita quotidiana ci preoccupiamo di proteggere la nostra pelle perché ci concentriamo su scale temporali assai più brevi delle nostre vite. Ma su tempi che superano di gran lunga il secolo, ciò che conta non sono gli individui ma l’informazione genetica della specie umana nel suo complesso. Malgrado qualcuno insista a sostenere il contrario, le persone che conosciamo oggi fra un secolo non ci saranno più comunque, quindi se parliamo di strategie per un futuro di un miliardo di anni non c’è motivo di concentrarsi su come preservarle come individui.
Su tempi così lunghi, sarà meglio badare a preservare la nostra specie. L’istinto di tutti i genitori è prendersi cura della prole e assicurarsi in questo modo una forma di longevità; è così che la natura ci concede di estendere il tempo di vita del nostro genoma ben al di là della durata della nostra vita.
Come passo ulteriore, la scienza moderna potrebbe poi consentirci di realizzare stampanti capaci di produrre un gran numero di copie di noi stessi su altri pianeti, esportando su di essi soltanto il nostro progetto genetico, senza bisogno che il nostro corpo copra fisicamente quella distanza. Dovremmo sentirci soddisfatti di questo rinnovato senso di sicurezza, e ritirarci serenamente una volta compiuta la nostra missione.
Ma il giornalista insisteva: “Ma saremo davvero soddisfatti, se non saremo lì a vederlo?” E io ho replicato: “Questo, francamente, potrebbe non avere la minima importanza. Forse noi stessi siamo già solo una copia fra tante e dunque non è essenziale che questa particolare copia sopravviva. Ma se do un’occhiata al giornale di oggi sono incline a credere che la nostra civiltà scomparirà in seguito alle ferite che si infligge da sola molto prima che si concretizzino le prevedibili minacce del Sole. Perché lo credo? Perché il mortale silenzio che arriva, finora, dai numerosi esopianeti abitabili che abbiamo scoperto potrebbe indicare che le civiltà avanzate durano molto meno delle stelle che le ospitano.
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L’autore
Abraham Loeb è preside del Dipartimento di astronomia della Harvard University, fondatore della Black Hole Initiative di Harvard e direttore dell’Institute for Theory and Computation all’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics. Inoltre presiede il comitato consultivo del progetto Breakthrough Starshot.
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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” il 25 novembre 2019. Traduzione di Alfredo Tutino, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)