Dove si aprirà la prossima bocca eruttiva?

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Dove si aprirà la prossima bocca eruttiva?

Un nuovo modello per prevedere il punto in cui potrebbe emergere la lava combina metodi di fisica e di statistica. Applicabile a ogni tipo di vulcano, sarà particolarmente utile in quelli a caldera: come i Campi Flegrei, dove è stato testato con successo
di Giovanni Sabato
www.lescienze.it

Quando un vulcano inizia ad agitarsi, dove sboccherà la lava? Oggi prevederlo è spesso difficile. Ma promette di diventare più facile e preciso grazie a un modello pubblicato su «Science Advances» da Eleonora Rivalta, del GFZ German Research Centre for Geosciences di Potsdam, in Germania, in collaborazione con l’Università di Roma Tre e con l’Osservatorio vesuviano dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia di Napoli.

«I vulcani fatti a forma di cono, come l’Etna, spesso eruttano in cima, ma la lava può emergere anche lungo i fianchi ed è difficile prevedere dove. Ancor più imprevedibili sono i vulcani non a cono, come i Campi Flegrei, che non hanno una vetta dove si concentra l’attività eruttiva, ma una caldera: una depressione creata dal crollo del tetto della camera magmatica durante un’eruzione. Qui le fessure eruttive sono sparse lungo un’area estesa e pronosticare dove emergerà la lava è molto difficile» premette Rivalta a Le Scienze.

Eruzione sull’Etna (© Martin Rietze/AGF)

Per provarci esistono due tipi di metodi. Quelli fisici cercano di stabilire come si fa strada il magma, fratturando le rocce con la sua pressione lungo le linee di minore resistenza. Ma per farlo bisogna conoscere molto bene tutte le componenti – come il peso dell’edificio vulcanico, i possibili collassi e così via – che determinano punto per punto il campo di sforzo, cioè lo sforzo che la lava deve compiere in ciascun punto per farsi largo nella roccia. «E siccome non conosciamo mai a fondo queste componenti, questi modelli trovano poca corrispondenza con la realtà e in pratica non si usano» dice Rivalta.

I modelli che funzionano meglio e che sono usati per le previsioni sono quelli statistici, basati semplicemente sulla posizione delle fessure prodotte dalle eruzioni avvenute: dove sono più concentrate, ho più probabilità di nuove eruzioni. «Il problema è che spesso ce ne sono poche, ed è difficile fare statistiche con una fessura per chilometro quadrato. Inoltre molti vulcani si attivano di rado, e un’eruzione può mascherare gli effetti delle precedenti. Quindi alla fine l’informazione che ho in superficie è limitata» spiega Rivalta.

Perciò, il suo team ha combinato le due cose. «Tenuti buoni i principi fisici, abbiamo calibrato il modello di sforzo con i dati disponibili: sappiamo dov’è la camera magmatica, dove sono avvenute le eruzioni passate, e ci chiediamo qual è il campo di sforzo preciso che porta dalla camera a tutte le fessure passate, coerente con quanto sappiamo sulla struttura del vulcano e i meccanismi fisici di propagazione del magma. Questo modello può avere anche solo due o tre parametri che definiscono punto per punto lo sforzo del magma, e determinarli è più facile anche se le fessure sono poche».

Per costruire il modello il vulcano dev’essere ben studiato, perché servono almeno tre tipi di informazioni. Primo, dov’è la camera magmatica; quando la camera riceve nuovo magma dal basso, si pressurizza e crea deformazioni osservabili, da cui si capiscono la sua forma, la profondità e le altre caratteristiche. Il secondo punto è dove sono le fessure eruttive e a quando risalgono le eruzioni, poiché il campo di sforzo può modificarsi e quindi è importante sapere quali sono stati i punti di eruzione nel tempo.

Il terzo elemento è sapere se il vulcano ha cambiato forma nel periodo delle eruzioni che considero, perché il peso dell’edificio vulcanico è una delle maggiori sorgenti di sforzo e se cambia devo considerarlo. «Poi, più ne so e meglio è. Se ho altre informazioni, come gli strati presenti nelle rocce, o terremoti passati da cui posso trarre informazioni sulla struttura del vulcano, tanto meglio» aggiunge Rivalta.

Con questo modello si applica un cosiddetto metodo Montecarlo: cerco di indovinare i parametri che definiscono il campo di sforzo nel modello fisico che ho costruito; se le traiettorie risultanti non corrispondono a quelle osservate, scarto questi parametri e ritento con altri a caso, finché non trovo il modello le cui traiettorie portano dalla camera magmatica alle fessure osservate, epoca per epoca. E con i parametri più recenti posso provare a prevedere cosa accadrà alla prossima eruzione, posto che il vulcano resti com’è. «Se cambia forma, forse studiando come si è modificato il campo di sforzo con i cambiamenti precedenti posso pronosticare gli effetti del mutamento attuale» precisa Rivalta.

Colata lavica nel vulcano Kilauea (© ARCO/R Schweizer/AGF)

Il modello è pensato per ogni tipo di vulcano, ma per ora è stato verificato – con successo – solo sui Campi Flegrei, quindi si può dire che funziona per le caldere. La verifica è stata di due tipi. Innanzitutto… L’ARTICOLO CONTINUA QUI

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