Difendere l’ambiente, nel mondo, può uccidere più che andare in guerra

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Difendere l’ambiente, nel mondo, può uccidere più che andare in guerra

Tra il 2002 e il 2017 sono stati uccisi oltre 1500 attivisti impegnati nella difesa della natura. La corruzione e uno stato di diritto debole garantiscono spesso l’impunità ai colpevoli
di Rachel Nuwer / Scientific American
www.lescienze.it

La notizia che il fratello e la moglie erano stati assassinati ha sconvolto Claudelice Silva dos Santos ma non l’ha sorpresa. Per anni José Cláudio Ribeiro da Silva e Maria do Espírito Santo da Silva erano stati oggetto di minacce di morte e di aggressioni a causa del loro impegno contro la deforestazione e lo sfruttamento abusivo delle risorse boschive nella foresta amazzonica brasiliana dove vivevano. “Sapevamo che c’era un forte rischio che accadesse”, afferma Santos. “Ma avevamo sempre creduto che non sarebbe mai successo, che la resistenza, la visibilità della nostra lotta, tutte le cose che facevamo per impedire l’uccisione, avrebbero funzionato.”

I congiunti di Santos fanno parte delle oltre 1500 persone di 50 paesi uccise tra il 2002 e il 2017 come rappresaglia perché proteggevano risorse naturali come il suolo, l’acqua e le foreste. Secondo i risultati di uno studio pubblicato su “Nature Sustainability”, in quei 15 anni il numero di morti all’anno è raddoppiato e le uccisioni sono avvenute soprattutto in paesi caratterizzati da alti livelli di corruzione e da uno stato di diritto debole. Nell’articolo gli autori riferiscono che in quel periodo gli omicidi di attivisti dell’ambientalismo hanno superato la somma delle morti di soldati britannici e australiani impegnati all’estero in zone di guerra.

“Ci sono casi di tutti i generi, da personalità premiate che erano riuscite a conquistare sostegno a livello internazionale, a persone che operavano a livello locale”, spiega Mary Menton, assegnista di ricerca che si occupa di giustizia ambientale presso l’Università del Sussex, e coautrice del nuovo studio. “Spesso a essere uccisi sono singoli individui, ma ci sono stati anche casi di massacri.”

Deforestazione nella Repubblica democratica del Congo (The University of Queensland)

Lo studio si è basato su una banca dati di omicidi di ambientalisti compilata da Global Witness, un’associazione senza scopo di lucro che si dedica a portare alla luce la corruzione e gli abusi ambientali. Global Witness verifica ciascun caso inserito nel database attraverso tre fonti separate, tra cui notizie sui mezzi di comunicazione, rapporti di associazioni non governative locali e interviste a persone residenti nelle zone interessate.

I ricercatori hanno effettuato un’analisi geospaziale delle 683 morti avvenute tra il 2014 e il 2017. (Secondo un rapporto pubblicato il 30 luglio da Global Witness, altri 164 attivisti ambientali hanno perso la vita nel 2018.) Hanno incrociato i dati di Global Witness con quelli relativi ai raccolti agricoli, alla copertura forestale, alle attività estrattive e alla presenza di dighe, per vedere se la diffusione di queste attività fosse correlata a un aumento del numero di morti pro capite.

Così hanno scoperto che l’America centrale e il Sudamerica sono le zone più pericolose per gli attivisti ambientali. La quota maggiore di morti è stata riscontrata tra gli attivisti che combattevano contro i progetti legati alle attività estrattive e all’agricoltura su larga scala, e il numero di omicidi pro capite più alto riguarda per lo più i paesi dove il settore agricolo è più significativo e ci sono più dighe idroelettriche. A soffrire le perdite peggiori sono stati i gruppi indigeni, ma sono stati uccisi anche avvocati, giornalisti, guardie forestali e altri individui non indigeni.

I ricercatori hanno confrontato i tassi di omicidi con la posizione di ciascun paese nella classifica dello stato di diritto redatta dall’associazione non governativa World Justice Project sulla base dei livelli di corruzione, applicazione della legge, giustizia, diritti fondamentali, sicurezza e ordine. Inoltre, hanno confrontato i tassi di omicidi anche con i livelli di corruzione riportati dall’associazione non governativa Transparency International.

Non sorprende che abbiano trovato correlazioni significative tra alti livelli di corruzione, uno stato di diritto debole e l’uccisione degli attivisti ambientali. “È un risultato intuitivo, ma a volte crediamo di sapere le cose, ma non abbiamo prove per confermarle”, commenta Menton. “Adesso abbiamo una base fattuale per affermare che questa correlazione vale in tutto il mondo, e non in un solo paese.”

Appena il 10 per cento circa di coloro che hanno ucciso attivisti ambientali deve fare i conti con la giustizia, secondo Global Witness. Per compiere un crimine o assicurarsi che questo non sia mai oggetto d’indagini o perseguito in giudizio i criminali possono trovare aiuto tra gli esponenti della polizia, degli organi governativi o del sistema giudiziario, sostiene Menton. Oppure può accadere che un paese non abbia le risorse necessarie per condurre un’indagine o perseguire l’omicida in giudizio. In ogni caso, continua Menton, la situazione crea un senso di impunità in cui “in pratica gli assassini sanno che non saranno presi”.

E’ proprio quello che è successo nel caso dei parenti di Santos, delle cui morti nessuno ha mai davvero dovuto rispondere. Secondo la donna, il “consorzio della morte”, come lo chiama lei, che ha causato la morte di suo fratello e di sua cognata è costituito da tre livelli: le persone assoldate per eseguire gli omicidi, chi li ha organizzati e chi li ha finanziati. Chi fa parte degli ultimi due livelli, cioè gli uomini d’affari, i politici e i latifondisti, se la cava sempre per qualsiasi crimine, afferma Santos, perché gode di protezioni altissime grazie ai legami con le autorità (o perché sono loro stessi le autorità). “Quando la giustizia non va fino in fondo, ti cambia la vita”, afferma Santos. “L’unica cosa che possiamo fare è non lasciarci prendere dal panico, e non smettere di lottare.”

Secondo Philippe Le Billon, geografo dell’Università della Columbia Britannica, che non ha partecipato al nuovo studio, l’articolo è “un contributo positivo alla letteratura e aiuta ad attirare di più l’attenzione sulla violenza contro gli attivisti ambientali e sulle responsabilità delle aziende che sfruttano le risorse naturali”.

Menton concorda sul fatto che si dovrebbero esercitare pressioni sulle aziende perché rispettino i diritti umani e “ripuliscano” tutta la filiera di approvvigionamento. “Se possiamo dimostrare che queste aziende sono responsabili degli omicidi – afferma – allora dobbiamo fare in modo che facciano fronte alle loro responsabilità per il ruolo che hanno avuto. E non mi riferisco solo alle piccole società consociate, ma anche alle grandi aziende a monte.”

Miniera nella foresta del Mato Grosso (Universal Images Group / AGF)

Le Billon, tuttavia, sottolinea che i dati usati dagli autori non sono completi e probabilmente contengono “zone d’ombra”, soprattutto per quanto riguarda i paesi africani, dove secondo Global Witness è probabile che le uccisioni non siano sempre denunciate. Menton conferma che i dati non includono tutti gli omicidi rilevanti. Quelli che si verificano nelle comunità rurali possono sfuggire all’attenzione e alcuni di quelli che avvengono in paesi autoritari non sono mai denunciati pubblicamente. “In realtà stiamo solo iniziando a capire la portata di quello che sta succedendo”, afferma.

Attualmente Menton e uno dei suoi colleghi lavorano a un progetto che si occupa delle persone che hanno ricevuto minacce e dei familiari delle vittime di omicidi il cui movente è legato all’attivismo ambientale. Il loro obiettivo è quello di capire meglio come si alimenta la violenza, e anche quali siano i fattori che determinano se le comunità continuano a lottare di fronte all’intimidazione, alle minacce e, se del caso, agli omicidi. In fondo sperano di scoprire come prevenire le uccisioni prima che accadano. Menton intende anche lanciare una piattaforma on line attraverso la quale gli attivisti ambientali possano raccontare la propria storia e farsi sentire di più, in modo sicuro e, se necessario, anonimo.

“Vogliamo dire al mondo che qualcosa a cui bisogna prestare attenzione”, afferma Santos. “È inaccettabile che le persone siano assassinate perché difendono i diritti umani e perché difendono un bene comune, l’ambiente.”

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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” il 5 agosto 2019. Traduzione di Francesca Bernardis, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

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