Useremo i Droni per scovare le mine antiuomo
Sciami di droni per mappare la posizione delle mine antiuomo: la ricercatrice italiana Federica Mezzani potrà ora sviluppare questa sua idea grazie al premio “L’Oréal Italia per le donne e la scienza”
di Giovanni Sabato
www.lescienze.it
I droni contro le mine. E’ l’idea vincente di Federica Mezzani, che lavora con una borsa di ricerca al Dipartimento di ingegneria meccanica e aerospaziale della “Sapienza” Università di Roma.
Quest’anno Mezzani è tra le sei vincitrici del premio “L’Oréal Italia per le donne e la scienza” (ramo italiano del premio internazionale L’Oréal-UNESCO For Women in Science), che assegna a giovani ricercatrici borse di 20.000 euro ciascuna per realizzare un proprio progetto.
Il lavoro di Mezzani ha spaziato fra campi diversi, dalle onde gravitazionali ai metamateriali, ai droni per operazioni di soccorso. A quest’ultima esperienza si rifà il nuovo progetto, dall’orizzonte però molto più ambizioso: sviluppare sciami di droni capaci di localizzare le mine antiuomo nascoste nel terreno, per creare una mappa dettagliata utile a chi dovrà eliminarle.
Federica Mezzani (L’Orèal UNESCO for women in science 2019)
“Il nostro gruppo lavora molto all’innovazione tecnologica, e spesso lo fa in risposta alle richieste del mondo industriale da cui prendiamo i finanziamenti, dato che l’università non riceve molti fondi statali. Ora volevo cogliere l’occasione di usare i potenti strumenti dell’ingegneria per fare qualcosa di importante per me, che avesse un valore sociale”, spiega Mezzani a “Le Scienze”.
Il sistema allo studio si baserà su due sciami di droni. “Uno vola a una quota un po’ più alta per fare una ricognizione rapida del territorio e individuare le zone potenzialmente contaminate. In base alle informazioni del primo sciame, parte poi il secondo sciame che a bassissima quota, anche di pochi centimetri, fa un pattugliamento molto più dettagliato e comunica la posizione esatta delle mine per tracciarne una mappa in tempo reale. Lo scopo non è di farle esplodere ma solo di localizzarle.”
Le tecnologie di base per farlo esistono già, assicura Mezzani. Si tratta solo di svilupparle per questo uso. “Noi, collaborando soprattutto con l’Istituto di ingegneria del mare del Consiglio nazionale delle ricerche, abbiamo sviluppato droni per salvare le persone che, per esempio, cadono in acqua da una nave. Qui però sarà più complicato: parliamo di due sciami di droni che devono collaborare, e fare un rilevamento molto più sofisticato, volando a bassissima quota. Quindi bisognerà sviluppare tecnologie nuove soprattutto per le logiche di controllo. L’altra sfida sarà trovare il set di sensori più opportuno per rilevare le mine. Quindi, in pratica, avremo droni simili a quelli già in uso, integrati con sensori opportuni e con sistemi di controllo appositi.”
Mapparle una a una
I sensori a cui pensa Mezzani al momento sono di due tipi: sensori a ultrasuoni, e un gravimetro messo a punto all’Università di Glasgow. Il gravimetro rileva piccole variazioni dell’accelerazione di gravità dovute a variazioni di densità del terreno, quindi permette di visualizzare quel che c’è sottoterra attraverso la misurazione della gravità.
Quelli tradizionali sono costosi e ingombranti, ma a Glasgow ne hanno realizzato uno molto più piccolo, leggero ed economico. “Mi pare quello più adatto, anche perché uno degli scopi del progetto è di abbattere i costi rispetto ai sistemi attuali. Però dovremo verificare a che quota bisogna sorvolare l’area per poterlo usare per i nostri rilevamenti. L’idea è usare sui droni ad alta quota i sensori a ultrasuoni, più potenti ma con meno dettaglio, e i gravimetri su quelli a bassissima quota.”
La prima parte del progetto prenderà comunque in esame anche altri sensori, per individuare i più appropriati, dato che serve una sensibilità molto alta per individuare in modo preciso le mine distinguendole da altri anomalie del terreno. “Inizieremo la campagna sperimentale costruendo un prototipo di mina e verificando che segnali ci dà, per poi andare a ricercare gli stessi segnali quando faremo l’analisi sul terreno.”
Mezzani spera di iniziare i lavori a novembre. “Con i 20.000 euro del premio, conto di avviare gli esperimenti e ricavare i primi risultati in dieci mesi, risultati che spero saranno convincenti anche se non definitivi. Dovremo individuare i sensori più adatti e sviluppare una prima logica di controllo, almeno in versione beta, per dimostrare la fattibilità del progetto. Poi, quando avrò qualcosa di più tangibile, cercherò gli interlocutori per svilupparlo, per esempio agenzie delle Nazioni Unite od organizzazioni non governative.”
La speranza è che, avendo una mappatura precisa, si possa andare a disinnescare le mine una a una, “anziché farle brillare come si fa spesso oggi, perché le esplosioni possono inquinare i terreni”. Ma questo va oltre il progetto, che si occupa solo della mappatura e non del successivo disinnesco.
“E’ un’ottima iniziativa”, commenta a “Le Scienze” Giuseppe Schiavello, direttore di Campagna italiana contro le mine, una ONLUS attiva a livello italiano e internazionale per promuovere la messa al bando delle mine antiuomo e le operazioni di sminamento. “La ricerca in questi ambiti è sempre utile, ce n’è ancora un gran bisogno.”
Al di fuori della Convenzione
Nonostante una Convenzione internazionale per la messa al bando delle mine a cui aderiscono oggi 164 paesi, nel mondo restano molte aree pesantemente contaminate da conflitti passati e recenti, e secondo l’ultimo rapporto dell’International Campaign to Ban Landmines, dall’ottobre 2017 all’ottobre 2018, l’uso di mine antiuomo è proseguito da parte delle forze governative del Myanmar, che non aderisce alla Convenzione, e di gruppi non statali in almeno otto paesi, fra cui Afghanistan, Colombia, India e Nigeria. In parecchi altri paesi – come Siria e Iraq, Ucraina, Libia e Tunisia – ci sono segnalazioni che non è stato possibile verificare con osservatori indipendenti. Le vittime accertate delle mine esplose sono state quasi 2800, per l’87 per cento civili.
Operazione di sminamento in Siria (UN Photo)
“Oggi i droni per la bonifica umanitaria, che ormai non riguarda solo le mine ma una quantità di ordigni quali bombe inesplose, ordigni improvvisati e altri ancora, sono già usati per le esplorazioni di primo livello, cioè per vedere se in un’area ci sono ordigni o segni della loro possibile presenza, come animali da pascolo morti. Un sistema di mappatura dettagliata come quello proposto da Mezzani potrebbe essere assai utile, velocizzando molto le ricognizioni”, osserva Schiavello.
Quanto al disinnesco, “l’inquinamento prodotto da queste operazioni dipende da quali ordigni ci sono, ma di solito riguarda più l’aria che il terreno”, precisa Schiavello. “Si stanno già studiando modi per farlo meglio, per esempio senza far brillare l’ordigno ma facendolo bruciare ad altissime temperature, così che non riesca a scoppiare. Comunque è un’operazione delicata. Una bonifica capillare richiede un intervento manuale, e molti degli operatori che lo fanno sono ex militari o personale formato dai militari.”
La ricerca resta comunque necessaria, ribadisce Schiavello, anche perché non c’è un unico sistema che sia ottimale ovunque. “Gli sciami a bassissima quota mi sembrano ottimi per ambienti come il deserto, ma non per un bosco della Bosnia o della Colombia. Quindi l’impiego dipenderà anche dalle condizioni geomorfologiche. In ogni caso, non posso che fare i complimenti alla ricercatrice.”