Il futuro è sempre più cupo per i ghiacci antartici

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Il futuro è sempre più cupo per i ghiacci antartici

Nuove analisi e simulazioni sempre più precise della situazione dei ghiacciai dell’Antartide indicano che ci sono maggiori probabilità che il ritmo del loro scioglimento, fattore principale dell’innalzamento dei mari, sia quello previsto negli scenari peggiori
di Giovanni Sabato
www.lescienze.it

La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo. Il leader degli Skiantos, Freak Antoni, avrebbe riassunto così lo studio sull’instabilità dei ghiacci antartici pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” da un gruppo guidato da Alexander Robel, glaciologo al Georgia Institute of Technology di Atlanta. Nell’incertezza sulla fusione dei ghiacciai antartici e sul conseguente innalzamento del mare, il ventaglio delle possibilità non è simmetrico attorno alla proiezione più probabile, ma è spostato verso i casi peggiori. Le probabilità che le cose vadano peggio, quindi, sono più alte di quelle che vadano meglio.

Il ghiaccio continentale
Lo scioglimento dei ghiacci continentali antartici è il fattore principale nell’aumento dei livelli dei mari, osserva Robel, e negli ultimi sei anni, cinque ghiacciai strettamente sorvegliati hanno raddoppiato la velocità di fusione. Pronosticare l’entità e i tempi del processo è però complicato dalle tante incognite sul clima e sui processi con cui crescono e calano i ghiacciai. Una fonte di particolare incertezza, su cui si concentra lo studio, è quanto avviene alla base della calotta, sulla linea di contatto tra il suolo e il ghiaccio, la cosiddetta grounding line.

“La calotta polare antartica poggia su un fondale roccioso, che per lo più è sott’acqua. Il ghiaccio è spesso più di 4000 metri in parecchie zone. Alle estremità forma spesso piattaforme di ghiaccio protese sull’acqua per centinaia o migliaia di chilometri, che si attaccano al fondale marino lungo la grounding line. Questi punti di contatto sono poco o quasi mai raggiungibili, quindi i processi che vi avvengono sono meno studiati di altri aspetti del comportamento dei ghiacciai.” Lo spiega a “Le Scienze” Andrea Bergamasco, oceanografo fisico del CNR, che dopo aver studiato l’Antartide per decenni all’Ismar (Istituto di scienze marine) ora lavora al nuovo Istituto di scienze polari, istituito dal primo giugno per concentrare le competenze sul tema.

Questa incertezza non è un problema da poco perché lungo la linea di contatto possono avvenire fenomeni, quali flussi di acqua e di ghiaccio, che rendono il ghiacciaio instabile accelerandone drasticamente la fusione, fino a poter raggiungere un punto in cui il processo si autoalimenta e la fusione prosegue anche a prescindere da ulteriori aumenti delle temperature. Le scarse conoscenze e il rischio di instabilità rendono più incerte le previsioni e quindi più difficili i piani di adattamento, rimarca Robel.

“Lo studio si concentra su questo aspetto. Per aggirare l’incertezza si fanno centinaia di simulazioni (o ensemble) su come potrebbe fondere la calotta polare in funzione di molti parametri (per esempio il riscaldamento dell’acqua che circola sotto), e si analizzano le possibili risposte del modello. Così la media che si ricava (la risposta più probabile) è più robusta, e la deviazione standard ci dice quanto è accurata la nostra ricostruzione del fenomeno”, spiega Bergamasco.

Il modello è stato applicato a uno dei ghiacciai più importanti, il Thwaites, e mostra che gli scenari variano molto, ma prevedono comunque forti rischi che si inneschi l’instabilità, in tempi che possono andare dai 200 ai 600 anni, con un aumento del livello medio del mare fino a un metro. “Sembra tanto tempo, ma bisogna pensare che quello analizzato è l’effetto di un solo ghiacciaio, puntualizza Bergamasco. E soprattutto, come si diceva, la distribuzione delle probabilità non è simmetrica.

Schema della dinamica dello scioglimento lungo la grounding line (antarcticglaciers.org/CC non-commercial license)

“La curva è spostata verso il caso peggiore: ci sono molte più probabilità che la contrazione dei ghiacci e l’innalzamento dei mari siano maggiori del previsto, più rapidi e con scostamenti più marcati, che viceversa. Quindi non dobbiamo sottovalutare i rischi. Non mi piace mai fare il catastrofista, ma un altro modo di vederla è che rischiamo più a essere troppo tranquillizzanti che a essere allarmisti.”

Il ghiaccio marino
Non conforta, del resto, un secondo studio sull’Antartide pubblicato sempre sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” da Claire Parkinson, del NASA Goddard Space Flight Center di Greenbelt, nel Maryland. “Questo studio è sul ghiaccio marino, che si forma quando d’inverno ghiaccia la superficie dei mari. Quindi è ghiaccio che già galleggia, e fondendo non contribuisce a innalzare il livello del mare» precisa Bergamasco. «Ma non per questo possiamo disinteressarcene. Per esempio perché se diminuisce la formazione del ghiaccio marino, che con il suo bianco riflette la luce solare molto più di ogni altro colore, gli oceani catturano più luce e si scaldano ancora di più.”

Mentre le immagini del ghiaccio dell’Artico che svanisce sono note in tutto il mondo, e rientrano in un quadro coerente in cui aumentano le temperature e calano i ghiacci marini e terrestri, la situazione dell’Antartico è più complessa da interpretare. Dal 1978, nonostante il riscaldamento del pianeta, le osservazioni satellitari hanno registrato una crescita complessiva dei ghiacci marini, proseguita – con l’eccezione di un settore (i mari di Bellingshausen/Amundsen) – fino al 2014. Sulle ragioni ci sono molte ipotesi ma non si è raggiunto un consenso.

Negli ultimi anni però la tendenza si è invertita. I dati più recenti presentati da Parkinson mostrano che dal 2014 al 2017 c’è stato un calo precipitoso della copertura glaciale, molto più rapido di quello mai osservato nell’Artico. Nel 2017 si è così toccata la copertura annua più bassa mai registrata in 40 anni di osservazioni. “Quattro anni di calo così brusco non si erano mai visti, è un altro segnale che bisogna stare molto attenti”, osserva Bergamasco.

Nel 2018 i ghiacci hanno segnato una piccola ripresa e non si sa quale sarà la tendenza nei prossimi anni, quindi il fenomeno resta complesso da decifrare e vale la pena continuare a tenerlo sotto controllo. “Questo calo potrebbe offrire nuove occasioni per dirimere tra le varie ipotesi avanzate”, scrive Parkinson. «La mia speranza è che, con ormai 40 anni di osservazioni satellitari, si comprendano meglio le condizioni oceaniche e atmosferiche alla base delle variazioni dei ghiacci osservate.

Ma più in generale, le raccolte di dati disponibili potrebbero a breve essere abbastanza estese e ricche da farci ricollegare eventi che ora vediamo slegati, e unificarli in una visione organica del sistema climatico, come quando El Niño e la Southern Oscillation sono stati unificati nell’ENSO. Allora la comprensione del clima planetario, inclusi gli andamenti dei ghiacciai, potrà diventare molto migliore.”

Bergamasco concorda. “I due poli vanno studiati insieme; oggi ne sappiamo di più sull’Artico, perché condurre campagne lì è più facile e costa meno che nell’Antartico. E più in generale, tutto il clima va indagato a livello globale e interdisciplinare. Non posso studiare l’aria separatamente dagli oceani e così via. La linea di contatto tra ghiacciai e terreno, per esempio, è una zona dove convergono tante sfere: atmosfera, idrosfera, criosfera, litosfera.

Ma i metodi concorsuali – e non solo in Italia – non favoriscono un approccio a tutto tondo. Se io, oceanografo, scrivo un articolo sui processi che si hanno tra l’atmosfera e l’oceano, o che si focalizza sull’interazione tra i ghiacci e l’ecosistema che si forma nei ghiacci, in un concorso posso essere valutato meno di un collega che scrive in modo più approfondito solo sul tema degli oceani. E per quanto il primo incentivo alla ricerca sia il desiderio di capire, questo non è un ostacolo da poco.”

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