Il lupo europeo è sempre più… ibrido
L’azione dell’uomo sull’ambiente e il numero sempre più alto di cani vaganti provocano un continuo aumento degli ibridi fra cani e lupi in tutta Europa, al quale è urgente porre rimedio con l’aiuto della scienza
di Lisa Signorile
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Si fa presto a dire lupo. Che cos’è un lupo, in fondo, se non l’espressione di un particolare insieme di geni rivestito di pelo? E se questo insieme cambiasse, potremmo ancora parlare di lupo? È il dilemma che si trovano a fronteggiare in questi anni gli zoologi di tutta Europa, che stanno osservando un continuo aumento dell’ibridazione tra cani e lupi a causa dell’influenza dell’uomo.
Un nuovo studio su “Frontiers in Ecology and Evolution”, a cui hanno collaborato oltre 40 scienziati, ha cercato di capire le cause che si celano dietro la mancanza di una gestione efficace del fenomeno, individuandole nell’assenza di un consenso generale nel mondo scientifico su come intervenire.
“Oggi sappiamo con certezza che l’ibridazione tra cane e lupo è avvenuta più volte nella lunga storia di domesticazione del cane, durata oltre 12.000 anni”, dice Paolo Ciucci, esperto di grandi carnivori del Dipartimento di biologia e biotecnologie della “La Sapienza” Università di Roma.
“Ma ora c’è il sospetto che, come per molti altri fenomeni di origine antropica, anche questa ibridazione stia subendo una forte accelerazione, legata anche al numero di cani di molto superiore a quello dei lupi, ma soprattutto ai fattori che facilitano l’accoppiamento tra le due specie. Tra questi, la distruzione di habitat naturali, la persecuzione diretta del lupo che ne scompagina la struttura sociale, e la grande quantità di cani vaganti. Tutto ciò rende la probabilità di un incontro in natura tra esemplari di cane e di lupo molto più elevata che in passato, a un livello mai verificatosi prima nella storia evolutiva del lupo. Il rischio è che il lupo si trasformi definitivamente in cane.”
Per individuare una linea d’azione che possa trovare il consenso dei principali esperti europei, Valerio Donfrancesco dell’Università di Exeter, in Regno Unito, e Paolo Ciucci, autori principali dello studio hanno selezionato gli studiosi che hanno pubblicato sull’ibridazione negli ultimi dieci anni, ai quali hanno poi sottoposto una serie di questionari mirati. Dei 55 esperti interpellati, 42 hanno risposto a tutti i questionari, diventando così coautori dello studio.
I risultati, spiega Donfrancesco, sono stati poi analizzati con il cosiddetto metodo Delphi, “una tecnica ancora poco usata nel campo della biologia della conservazione, ma che in altri ambiti si è rivelata molto efficace nell’evidenziare e mitigare le situazioni di conflitto tra i diversi portatori di interesse, uno dei problemi alla base della perdita di biodiversità”.
Dallo studio emerge che gli esperti concordano su come definire un ibrido, che deve essere sempre determinato su base genetica (non ci si può, cioè, basare sull’aspetto esteriore dell’animale), e sulle strategie generali di intervento, suddivise in strategie preventive, proattive e reattive. Manca invece un accordo su aspetti più pratici, ma comunque rilevanti.
Tre strategie
Le strategie preventive mirano a educare il pubblico per cercare di ridurre il numero di cani abbandonati, quelle proattive prevedono la riduzione del numero di cani vaganti, la restaurazione ambientale e il potenziamento dei fattori che aiutano i lupi, come la lotta al bracconaggio. Le strategie reattive si imperniano infine sulla gestione attiva degli ibridi, per esempio con la cattura, la detenzione in cattività, la sterilizzazione e l’eventuale rilascio, oppure l’eutanasia. E proprio questo è il “pomo della discordia”.
Gli esperti dissentono infatti sull’uso di interventi reattivi in popolazioni stabili. Alcuni ritengono che gli interventi reattivi dovrebbero essere sempre applicati per evitare che il DNA di cane si diffonda nelle popolazioni di lupi, ma altri pensano che pochi ibridi non rappresentino una minaccia all’integrità genetica di quelle popolazioni, e altri ancora pensano che andrebbe valutato in base alle singole circostanze. Anche se la maggioranza concorda sulla detenzione in cattività degli ibridi in contesti specifici, non c’è consenso se sia preferibile la sterilizzazione e il successivo rilascio oppure l’eutanasia degli esemplari con una percentuale di DNA di cane superiore a una certa soglia.
Secondo gli autori dello studio sono tre i fattori principali all’origine del disaccordo. Innanzitutto, la specializzazione in ambiti disciplinari differenti, come la genetica e l’ecologia, porta i ricercatori ad avere punti di vista etici diversi, in particolare sull’uso di metodi di controllo cruenti; inoltre, la mancanza di studi specifici sull’efficacia dei vari tipi di intervento lascia spazio a intuizioni soggettive su quali siano i metodi più efficaci; infine, alcuni scienziati sono contrari alla rimozione degli ibridi perché potrebbe trasformarsi in una scappatoia legale all’uccisione di lupi.
Purtroppo, non esiste ancora quello che Isaac Newton avrebbe chiamato l’esperimento cruciale, in grado di determinare con sicurezza la strategia migliore, viste le condizioni sperimentali. “Come in molti altri interventi sull’ambiente – dice Ciucci – nella gestione della fauna, la scienza offre indicazioni importanti e insostituibili, ma ci sono ancora molte lacune e incertezze sulle risposte dei sistemi ecologici. Per il momento, ci può venire in aiuto la pratica della gestione adattativa, in cui noi impariamo facendo: monitoriamo la risposta del sistema agli interventi, ne valutiamo l’efficacia e, se necessario, li adattiamo alla risposta.”
Si tratta comunque di un problema in cui si intrecciano scienza, etica e politica – secondo Ciucci troppo spesso assente – complicato dalla polarizzazione a volte estrema e conflittuale dell’opinione pubblica. Tuttavia, aggiunge l’esperto, “la gestione dell’ibridazione non dovrebbe essere un argomento tabù, né per la comunità scientifica né per le istituzioni. In realtà, ci sono ampi margini per ottenere un consenso maggiore tra gli scienziati, soprattutto se verrà assicurato più spazio alla ricerca sulla fattibilità ed efficacia dei vari interventi. Sarebbe un errore imperdonabile continuare a negare il problema dell’ibridazione antropogenica solo perché la sua gestione è molto complessa”.