Perché c’è ancora chi non crede ai cambiamenti climatici?

0

Perché c’è ancora chi non crede ai cambiamenti climatici?

Anche se le prove sono schiaccianti, in molti negano i rischi che il nostro pianeta sta correndo. Psicologi sociali, scienziati cognitivi e neuroeconomisti spiegano perché.
www.focus.it

Gli studi sono moltissimi, le prove schiaccianti, gli scien­ziati concordi e le conseguen­ze già visibili. Eppure, molte persone nel mondo ritengono che il cambiamento climatico sia un’invenzio­ne, o perlomeno che si tratti di un evento non imminente e tutto sommato meno pericoloso di quanto non indichino i dati. Per questo, da tempo psicologi so­ciali, scienziati cognitivi e neuroecono­misti si interrogano su quali siano le ra­gioni del negazionismo climatico.

La risposta si trova nel funzionamento del cervello. «Per attivare il nostro sistema di allar­me, non basta che uno stimolo sia perce­pito come generalmente negativo, deve anche costituire un pericolo», spiega Si­mona Sacchi, psicologa sociale dell’Uni­versità Milano Bicocca, che lavora sulla perce­zione del cambiamento climatico. «Per questo rispondiamo prontamente alle minacce intenzionali, che sono sentite come imminenti e capaci di attaccare la nostra incolumità fisica, o anche quelle di natura morale e sociale, i cui effetti si ripercuotono sul buon funzionamento della società.»

Un’immagine di Seul, capitale della Corea del Sud. Molte emissioni tipiche dei grandi agglomerati urbani contribuiscono all’effetto serra. | Shutterstock

Distanza psicologica. Il cambiamento climati­co, invece, non scatena simili reazioni perché ci appare distante, sia nel tempo sia nello spazio. «Gli effetti sull’ambiente delle nostre azioni non sono immediati, e forse non saremo neppure noi a subir­li», continua Simona Sacchi. Persino quando le previsioni sono vici­ne in termini temporali, la distanza psicologica rimane. «An­che se mancano ormai solo tre anni al 2020 – data entro la quale, secondo molti scienziati, bisognerebbe ridurre drasticamente le emissioni di gas serra in atmosfera – quella data è percepita an­cora come lontana, così come distanti geograficamente ci appaiono il Polo Nord, il cui ghiaccio si sta sciogliendo, e il Sudest asiatico, sconvolto dalle inon­dazioni. È questo divario spazio-tempo­rale a determinare l’atteggiamento di­staccato verso le tematiche ambientali», afferma Simona Sacchi.

Questa “distanza percepita” spinge a non credere a previsioni tan­to nefaste, come sono quelle sugli effetti dei cambiamenti climatici, atteggiamento amplifica­to dal meccanismo difensivo della ri­mozione, che usiamo inconsciamente in molti contesti per scacciare le preoccupazioni. «È un processo del tutto analogo a quello che mettiamo in atto nei confronti di altri pensieri ugualmente paurosi, come quello della morte, per esempio», aggiunge la studiosa.

Ma c’è dell’altro. Nel prendere le decisioni, gli individui utiliz­zano “scorciatoie del pensiero”, le cosid­dette euristiche, descritte per la prima volta dagli psicologi Amos Tversky e Da­niel Kahneman, quest’ultimo premio Nobel per l’economia nel 2002. Per esempio, tendiamo a considerare e a va­lutare i rischi futuri sulla base di quanto è accaduto in passato e della nostra capa­cità di immaginarci l’evento avverso.

«Nel caso del cambiamento climatico, però, fatichiamo a capire l’esatto legame causale tra decisioni passate e l’attuale scenario di crescente desertificazione di alcune aree», fa notare il neuroeconomi­sta Giorgio Coricelli, della USC Univer­sity of Southern California. Per questo il rischio che possano verificarsi eventi catastrofici dovuti al surriscaldamento ci appare molto piccolo.

Come si comporta il cervello di fronte alle basse probabi­lità? «Da una parte tende a sovrastimarle, perché l’impatto che un esito infausto può avere su di una persona può mettere in gioco la sua stessa sopravvivenza», afferma Giorgio Coricelli. Del resto, stipuliamo as­sicurazioni per eventi che hanno una bassissima probabilità di accadere, ma sono potenzialmente devastanti.

Al tempo stesso, però, entrano in gioco due errori di ragionamento che si fanno spesso, quando si valuta ciò che accade: «Quello dell’ottimismo, che ci porta a considera­re il futuro in una prospettiva molto più rosea di quanto non sarebbe lecito sup­porre, e quello della procrastinazione, che ci vede impazienti di riscuotere su­bito un guadagno (ad esempio, il consu­mo di risorse) e incapaci di attendere una maggior ricompensa futura (salvare il pianeta)».

Se­condo Coricelli, a influenzare il giudizio c’è anche il fatto che il cambiamento cli­matico non riguarda più il singolo, ma il gruppo. «Qui non c’è il rischio che un fulmine mi colpisca, ma che un’inonda­zione ci travolga tutti. E questo per il no­stro cervello fa la differenza. Lo stare insieme modifica la percezione del ri­schio, riducendola. Prudenti da soli, in gruppo ci sentiamo più sicuri e diventia­mo più audaci. I nostri studi hanno di­mostrato che nei due diversi contesti, sociale e individuale, valutiamo in modo differente il peso relativo di guadagni e perdite.»

Il detto “mal comune, mezzo gaudio” è insomma confermato anche a livello cerebrale. Tutto ciò con­tribuisce a sottovalutare la minaccia del riscaldamento globale. «Va aggiunto poi che i ragionamenti su questo tema sono spesso astratti e non di immediata com­prensione. Per questo, chi ascolta può essere persuaso a considerarle informazio­ni prive di fondamento, se non addirittu­ra manipolate», aggiunge Giorgio Coricelli.

Il fatto di percepire il cambiamento cli­matico come un problema collettivo spinge anche a credere che le soluzioni siano di esclusiva competenza delle isti­tuzioni, dei governi o dei trattati inter­nazionali. «L’azione individuale è rite­nuta inefficace», spiega Francesca Pongiglione, docente di Filosofia all’U­niversità Vita-San Raffaele di Milano, dove ha analizzato i processi decisionali individuali in relazione ai cambiamenti climatici. «Ma nei fatti non è così: i com­portamenti del singolo, pur non decisivi, sono invece rilevanti.»

In qualche caso, tuttavia, la mancanza di azione potrebbe non derivare da un sincero disinteresse o dalla reale apatia. A paralizzarci, potrebbero anche essere la paura e la sensazione di impotenza di fronte a una minaccia globa­le. «La conoscenza del fenomeno deter­mina il nostro comportamento. I son­daggi dell’Eurobarometro e dello Yale Program on Climate Change Communi­cation mostrano che la stragrande mag­gioranza dei cittadini europei e statuni­tensi è consapevole del problema, ma, quando si misura il loro livello di cono­scenza, emerge una profonda ignoranza delle relazioni tra l’uso dei combustibili fossili e l’accumulo di CO2 e tra i gas serra e il cambiamento climatico», prosegue Francesca Pongiglione.

«Mancando queste infor­mazioni di base, i cittadini non riescono a capire che anche il loro stile di vita ha un ruolo nel determinare i cambiamenti climatici e che, modificandolo, si potreb­be contribuire a contenere il fenome­no». Infine, non bisogna dimenticare che nelle dinamiche di gruppo il conte­sto e l’approvazione sociale giocano un ruolo fondamentale. «La motivazione ad agire dipende sì dal nostro sistema di va­lori, ma anche dall’atteggiamento di chi ci sta accanto. E così le scelte sostenibili di alcuni possono diventare contagiose e influenzare i comportamenti di tutti, so­prattutto se ciò si associa a decisioni le­gislative che le accompagnano e le inco­raggiano».

Il senso di impotenza, insomma, può diminuire quando ci si sente parte di un gruppo o di una comu­nità di persone che agiscono in modo virtuoso. Basterebbe cominciare.

Share.

Leave A Reply