L’ERUZIONE DEL VESUVIO DEL 16 DICEMBRE DEL 1631
La cronaca storica dell’eruzione del 16 dicembre 1631 della “montagna di Somma”, che provocò oltre 4.000 vittime e 44.000 sfollati
Tratto da “Esplora i vulcani italiani”
Oltre alle isole di Ischia e Procida, la Campania presenta due zone di vulcanismo attivo con caratteristiche molto diverse: il Vesuvio e i Campi Flegrei.
Il Vesuvio è un edificio vulcanico di forma conica, costruitosi per l’accumulo dei prodotti emessi da un condotto centrale nel corso di eruzioni sia di tipo esplosivo che effusivo (vulcano composito). Il cono del Vesuvio si trova all’interno di un apparato più antico, il Somma, di cui resta solo parte del bordo settentrionale.
I Campi Flegri non presentano un condotto centrale e le eruzioni sono avvenute in diversi punti, formando una serie di apparati di piccole dimensioni. La disposizione di molti centri eruttivi segue l’andamento di profonde fratture createsi per il ribassamento dell’area dopo grosse eruzioni esplosive. Simili strutture vulcaniche prendono il nome di caldere.
La città di Napoli si trova chiusa tra queste due zone vulcaniche e l’attività (o il riposo) di Vesuvio e Campi Flegrei hanno avuto grande riflesso sulla sua vita.
La zona campana, e non solo, è spesso sede di violenti terremoti di origine tettonica, cioé provocati dai movimenti delle placche continentali. Nella prima metà del 1600, tutto il Regno di Napoli viene investito da una serie di catastrofi: nel 1627 un violento terremoto colpisce la regione garganica distruggendo S. Severo e buona parte dei paesi vicini e provocando circa 5000 vittime; nel 1631 il Vesuvio ritorna in attività con l’eruzione che sarebbe stata la peggiore degli ultimi mille anni e, infine, nel 1638 uno dei disastrosi terremoti delle Calabrie distrugge buona parte di tutta la provincia di Cosenza.
Se a questo si aggiunge la pesante esazione fiscale pretesa dal Duca di Medina, Vicerè di Napoli, il quale dal 1636, in sei anni, raccolse ben 44 milioni di ducati in tasse, si comprende il violento moto di ribellione suscitato da un’ulteriore gabella sulla frutta e sfociato nella sanguinosa rivolta di Masaniello del 1647.
Le tragedie di Napoli culminano nel 1656 con la peste. La popolazione della città viene in breve dimezzata e ridotta a 200 mila abitanti.
L’attività vulcanica aveva interessato nel secolo precedente solo la zona dei Campi Flegrei, dove nel 1538, in pochi giorni, si era formato il rilievo di Monte Nuovo. Del Vesuvio si era addirittura dimenticato il nome originale per chiamarlo semplicemente “la montagna di Somma”.
Il vulcano, inattivo da lungo tempo (probabilmente dal 1500 o forse addirittura dal 1139) e ormai ricoperto da una fitta vegetazione, ritorna alla vita nel 1631 con una delle sue più violente eruzioni.
CRONACA DELL’ERUZIONE
La descrizione di questa eruzione viene fatta attraverso le parole di due testimoni dell’epoca: Giulio Cesare Recupito (De Vesuviano Incendio Nuntius) e Giulio Cesare Braccini (Dell’Incendio fattosi al Vesuvio a’ XVI Dicembre 1631, e delle sue cause ed effetti).
Recupito è tradotto dal latino. Si conservano in originale le frasi che scandiscono l’evento in un crescendo di tensione. I testi sono modificati nelle espressioni più arcaiche e, per renderli più scorrevoli, non vi è segnalazione delle frasi o parti di frasi omesse.
…Primus terror, terremotus…
ALCUNE SETTIMANE PRIMA:
Braccini
Raccontano i torresi e gli abitatori di Massa di Somma, di Polena e di S. Bastiano, che in sin dalli 10 di decembre cominciarono a sentir rumoreggiare nella montagna. Altri nel medesimo tempo osservarono, che senza essere piovuto, s’erano intorbidate l’acque nei pozzi, e in alcuni mancare. Racconta di più una persona, che un mese avanti essendo salito sopra il monte, dov’era la bocca della voragine, vi calò dentro, e tornatoci quindici giorni da poi, trovò che la terra s’era alzata tanto, che senza calar punto si passava da una banda all’altra per tutto.
LA NOTTE TRA 15 E 16 DICEMBRE:
Recupito
Terremoti particolarmente forti avvennero in quella notte con tanta forza che ritenemmo che la stessa città fosse divelta dalle fondamenta.
Per due giorni la trepidazione della terra fu perpetua e le scosse frequentissime: nei cinque giorni seguenti i terremoti avvennero a intervalli più rari finché finì la tragedia. A Napoli non cadde nessuna casa: molte furono danneggiate. A Ercolano il Palazzo dell’Arcivescovo di Napoli collassò in parte.
lunedì 15 dicembre
Verso le 5 di notte (intorno a mezzanotte) un servitore del marchese d’Arena narrò che sul ponte della Maddalena vidde un trave di fuoco il quale uscendo pareva lui, da Pozzuoli, arrivava insin al Vesuvio. E uomini di Resina (Ercolano) confermarono aver veduto l’istesso dentro la voragine, quasi immobile per molte ore. In quel tempo io sentii un picciolo terremoto, ma ne’ luoghi più contigui alla montagna, da quell’ora sin’alle 12 (7 del mattino), ne furono contati dove 18 e dove 50, l’uno più gagliardo dell’altro.
martedì 16 dicembre
Poco da poi (dopo le 7 di mattina) s’aprì il Monte nell’Atrio (tra la parte meridionale del Monte Somma, dove adesso si trova la collina del Salvatore, e il Gran Cono). Non vi andò molto tempo, che da ogn’uno si conobbe da più di una banda uscire e fumo, e fuoco, e cenere, e pietre, e fiamme: e un certo Santolo di Simone, lontano dall’incendio meno di mezzo miglio, la mattina istessa vidde in quel piano uscire il fumo, et il fuoco da più bande, che di mano in mano si aprivano, gettando nell’aprirsi uno schioppo, come se fussero stati tanti mortaletti di quelli che si tirano nelle feste: e quelle bocche gli parevano prima grandi quanto è un fondo di grosso tino, ma nell’esalare si slargavano, e facevano sempre maggiori: le esalazioni poi, unite insieme in aria, formavano quella nuvola, che vidde calar saette, e grossissime pietre.E altri attestano aver veduto in più parti le aperture, donde sono usciti sassi, e materie bituminose, oltre la voragine grande.
…Secundus terror, pluia cinerum…
Essendo già uscito il sole in Napoli cominciò a osservarsi sopra la montanga una densa, straordinaria nuvola: la quale da principio sembrava appunto un altissimo e fronduto pino.
Continuava tuttavia il sole a dichiarar qui (Napoli) co’ suoi raggi la sua solita benignità. Eccoti che verso le 18 ore (ore 13) crebbero tanto i vapori, e le esalationi che dalle voragini uscivano, che l’oscurò quasi affatto, e l’aria istessa si fé nera e caliginosa, con sentirsi una puzza di solfo, e di bitume abbruciato, tanto grave, che cagionava quasi soffocatione, e a me impediva il respirare.
Quando essendo già 21 ora (ore 16), cominciò anco in Napoli a sentirsi con li continui tremori per li quali crollavano talmente le case e ballavano i tetti spaventevole strepito per l’aria. Insomma fu qui per tre ore tanto grande questo rumore per l’aria, così continuo il conquassamento delle case, tanto spaventevoli i tuoni, talmente horribili i lampi.
Quella nube si erigeva dal Vesuvio fra gli incendi a guisa di montagna. In un primo momento era spinta dai venti verso Napoli, poi si trasformò in cenere. Il mattino dopo quando fece luce tutto appariva coperto di cenere: i tetti, i solai, le vie. Quello stesso giorno in cui il monte fu visto ardere per la prima volta, per molte città del regno di Napoli piovve cenere.
La cenere raggiunse Benevento, Bari e Taranto; trasportata dai venti giunse in Dalmazia e non furono immuni i mari. La cenere caduta dalla nube si propagò sull’Egeo e con orrendo spettacolo rese il mare imbiancato. Sapemmo inoltre che dall’altra parte che guarda a mezzogiorno la cenere giunse in Lucania e a Stilo e, passato il mare, giunse in Africa.
…Tertium terror fuit, pluia lapidum…
(Nelle zone immediatamente ad Est del vulcano) alle 14 (9 del mattino) fu così denso il fumo, che sebbene altrove era giorno, quivi pareva notte. (La principessa di Ottaviano incamminatasi alla volta di Cacciabella) mandò un schiavo ad Ottaiano per vedere ciò che quivi seguito fosse. Non era ancor giunto al palazzo lo schiavo, quando sentendosi saettare di pietre di quindici e venti ruotola l’uno, tornò addietro gridando: fuggi fuggi. E perché verso le 16 ore (11 del mattino), anco in Cacciabella cominciarono a cadere delle medesime pietre, quindi pure la Signora Principessa fu forzata a partire, e sebbene l’aria s’era alquanto rischiarata, fu sempre per via accompagnata da quella gragnuola di pietre, le quali seguitarono a piovere tutto il dì, e dalle 24 ore (ore 19) sin’alle 4 di notte (ore 23) li succedette un pesante rapillo, e a questo arena in sino a giorno; e appresso piovve insin’alle 16 (11 del mattino) del seguente mercoredì.
Caddero pietre dal cielo come terribile grandine non solo a Nola e nelle città più vicine al Vesuvio, ma anche nell’agro melfitano che si trova quasi nell’ombelico della Puglia e dista dal Vesuvio quasi 100 mila passi. Ne’ si trattava soltanto di pomici, ma di sassi anche di tanta grandezza che narrano che ne fu trovato uno tanto grande che la forza di dieci paia di buoi non poteva smuoverlo da dove era caduto. Avresti detto che non piovessero sassi, ma rupi.
Le pietre che piovevano verso questa parte (S. Gennaro) erano di varie qualità, colore e grandezza. Una andò a cadere sopra la cantina del marchese di Lauro in quella Terra lontana dalla Montagna più di 12 miglia. Le ceneri ancora, e la rena a quella volta si dilatarono et in si quantità grande, che per la via di Puglia, insin’ad Ariano, si alzò in alcuni luoghi più di 12 palmi, in Lucera di Puglia uno, in Foggia poco meno, in Barletta, in Bari, in Lecce ed in Otranto un dito; sebbene di Modogno, terra vicina a Bari scrisse uno averne raccolto sopra un suo tetto 24 tumula, e per tutto cominciò prima delle 22 ore (ore 17). In Napoli non si vidde avanti le 23 (ore 18) e molto poca: perché havendo durato a cadere tutta la notte, e buona parte del giorno seguente sempre asciutta, e sottilissima, non si abiò un dito.
…Quarta lues, ac terror, torrens igneus…
mercoledì 17 dicembre
Alle 8 ore (3 del mattino) essendosi raddoppiato lo strepito nella montagna cominciò a versare dalla voragine una materia liquida, la quale allagò tutto l’atrio sebbene non si vidde scorrere effettivamente acqua sopra la terra se non dopo le 16 ore (11 del mattino) del giorno seguente.
Alle 14 (9 del mattino), i terremoti vie più si facevano sentire e ricominciarono a cadere nel pian di Nola le pietre, la arena e rapilli. E si ricoperse talmente tutto quel paese di sì densa oscurità che ne anco con le torce accese potevano gl’uomini vedersi l’un l’altro.
Crescendo il rumore un torrente di fuoco uscì dal vertice del monte, il quale con bitume, zolfo e cenere gettandosi sul pendio con grande impeto e fragore cominciò a scorrere nel piano. Il quale torrente prima di giungere dal monte ai campi si suddivise in vari rivoli e rami quasi come un fiume.
Essendosi sentito un grandissimo terremoto (circa 11 del mattino), fece prima sopra Ottaviano un così grande e rapido torrente, che essendo diviso in tre profondissimi canali, sgorgarono tutti nel piano di Nola, allagando S. Elmo, Saviano, e tutti quei contorni, con affogarvi molte persone; e in alcuni luoghi si alzò 12 e 14 palmi, come in Marigliano, Cicciano, e Cisterna. Un altro ne calò verso S. Maria della Vetrara, che rovinò tutta Massa, e finì quasi ad atterrare quanto era rimasto in piedi nella terra di Trocchia, la metà di Pollena, e fece grandissimi danni in S. Sebastiano. Appresso calando li medesimi torrenti verso la marina, si divisero in tre rami, uno di questi prese verso Bosco, l’altro fra Torre della Annuntiata, e quella del Greco, e il terzo e minor di tutti sopra Resina; poco da poi ne calò un altro verso Somma. Da questi torrenti è nato il maggior danno.
Ed erano questi torrenti tanto precipitosi, che oltre l’essere in se stessi grossissimi, si facevano anco del continuo maggiori, col pararsi innanzi quello che trovavano.
Anco il mare ne sentì la sua parte e si ritirò per lungo spatio, e in alcuni luoghi dicono un miglio, e stette così ritirato quasi un ottavo di ora e fu tanto subito il ritiramento, che in questo modo restarono quasi in secco le navi.
Nel medesimo tempo la cima del monte era tutta aperta, e appariva larga più di tre miglia di circonferenza, e il monte istesso sbassato assai, giudicandosi da tutti, che fosse minore quasi la terza parte di quel che era il precedente giorno dall’Atrio in su.
…Quintus et postremus terror, acquarum inondatio…
Chi potrebbe credere che il Vesuvio che si trova di fronte al mare potesse emettere un torrente di fuoco e un torrente di acqua. Così, mentre il Vesuvio emetteva attraverso il cratere le fiamme, dall’altro lato che guarda i campi di Palma e Nola, cominciò ad effondere una grande quantità di acqua con grande forza.
Poco da poi con esser tuttavia il tempo sereno, si viddero rinovare i medesimi torrenti, e farsi anco maggiori de’ primi. Verso la marina distrussero affatto Bosco, la Torre della Nunziata, quella del Greco, Granatello e parte di Resina e seguitarono a scorrere insin alle 19 ore (ore 14), veggendosi in parte anco da Napoli, come se fossero state altissime e profonde fiumane.
L’acqua sommerse tutto quasi come se trasformasse i campi in mare e all’inizio l’acqua si sollevò fino ad un’altezza di 15 palmi e successivamente ridiscese. Le acque, con lo stesso impeto delle fiamme, scorrevano quasi certamente dalla montagna e travolgevano gli alberi, villaggi, travi, case, sassi e non solo tuguri, ma anche palazzi e giungevano fino ai tetti e nelle cantine, dove sfasciavano botti piene di prezioso vino.
Durò la pioggia della cenere in Napoli infino alle 17 ore (mezzogiorno), quando mutatosi il tempo, cominciò a un tratto a calare dal cielo tant’acqua che le strade correvano come fiumi e durò quasi tutto il giorno.
giovedì 18 dicembre 1631
Verso le 17 ore (mezzogiorno) tornarono a vedersi sopra la Montagna le medesime nuvole, che s’erano vedute il martedi mattina, e anco assai maggiori perché in quel giorno si alzarono insin a 35 miglia, se bene quando erano arrivate a tale altezza sbiancheggiavano, e si disperdevano per l’aria: e perché il tempo era sereno scorgevansi le ceneri infocate, spinte dall’acqua continuare a scorrere verso la marina a guisa di fiumi. Nel medesimo tempo vicino al palazzo del principe di Caserta alla Barra fu anco delle medesime ceneri, e da pietre ardenti sopragiunto un huomo a cavallo, e vi rimase morto, come accadde a molti altri in diverse parti.
CONCLUSIONE DELL’ERUZIONE
venerdì 19 dicembre
Avendo il signor Cardinale avuto avviso che con minor pericolo si poteva camminare e praticare per alcune delle Terre e dei Casali danneggiati vi mandò molti altri sacerdoti.
sabato 20 dicembre
(Dal 20) in quanto all’incendio non vi fu novità. In Napoli non habbiamo avuto altro di nuovo, salvo un rumore straordinario, che si udì alli 29, circa alle 8 ore di notte (3 del mattino), parendo che fusse caduta una Montagna: alcuni marinari viddero partirsi di sopra il Vesuvio un grande splendore a guisa di un grosso trave infuocato, e andare a cadere a Marano, e un altro in mare; e la mattina apparve tutto il Monte ricoperto di neve: il che si è veduto anco da poi più volte, cioé a li 20 di gennaio, alli 21 di febbraio. In Napoli non s’è mai patito freddo uguale a quello, che si è havuto quest’anno quasi continuamente insino alli 26 di marzo.
OSSERVAZIONI SULL’ERUZIONE
Tra i documenti dell’epoca utilizzati, vi sono quelli di Braccini e Recupito, già citati, di G. Battista Masculo (De incendio Vesuvii), di G. Bernardino Giuliani (Trattato del Monte Vesuvio e de suoi incendi) e una lettera di G. Battista Manso, Marchese di Villa.
Malgrado le numerose testimonianze, tra i vulcanologi moderni è da sempre aperto un dibattito sulla ricostruzione dell’eruzione del 1631. Quanti videro e descrissero l’eruzione non solo lo fecero in preda al terrore, ma mancavano anche di riferimenti, essendo il Vesuvio da così tanto tempo inattivo.
La coscienza di essere testimoni di un evento memorabile spinse molti eruditi a compilare cronache di cui è difficile valutare l’attendibilità e il cui linguaggio non sempre è traducibile nei moderni termini vulcanologici.
Un’altra difficoltà consiste nel ricostruire la successione oraria dei fatti, contandosi in quel tempo le ore a partire dalla sera. Fortunatamente, G. Battista Masculo dice che l’ora 17a a Napoli era il mezzogiorno e ci permette di ricondurre tutte le citazioni al sistema orario attuale.
Un altro punto di dibattito riguarda la presenza o meno di colate di lava. Secondo alcuni, espressioni come “fiumi di bogliente liquefatto solfo, bitume, e cenere” (Giuliani) o “acque sulfuree, e bituminose cotanto ardenti che sembravano piombo o stagno liquefatto” (Braccini) possono descrivere colate di lava, mentre secondo altri si riferiscono a flussi piroclastici.
Va precisato che il termine “lava”, oggi usato per indicare un flusso di magma sulla superficie terrestre, trae la propria origine dal dialetto napoletano dove con la parola “lava” si indicava, e si indica tutt’ora, un torrente di acqua mista a fango comunemente osservato scendere dalle colline attorno alla città dopo violenti acquazzoni. Un quartiere napoletano, sito nella parte orientale della città e frequentemente soggetto a questi fenomeni, era appunto chiamato “il Lavinaio”.
Nel periodo storico si ha la certezza di un’attività caratterizzata dall’emissione di colate di lava al Vesuvio, solo a partire dall’eruzione del 1694 (Sorrentino). Dopo pochi anni il termine “lava di fuoco” incomincia ad essere utilizzato per le colate di lava vere e proprie.Troviamo testimonianza di ciò nel Serao (1738) che sembra essere uno dei primi studiosi ad utilizzare il termine in questo senso.
1 – FENOMENI PRECURSORI
Il risveglio del vulcano è annunciato parecchi giorni prima da continui terremoti avvertiti nei paesi vicini al Vesuvio, ma non fino a Napoli. Questi terremoti sono probabilmente da ricollegare alle fratture che produce nelle rocce la risalita del magma. Si tratta in ogni caso di terremoti modesti, in quanto sono avvertiti solo nella vicinanza del vulcano.
Quindici giorni prima dell’eruzione le acque dei pozzi si intorbidiscono e in alcuni casi diminuiscono di livello. Nello stesso tempo la voragine del cratere si riempie.
Il primo fenomeno è stato osservato spesso prima delle eruzioni del Vesuvio e viene messo in relazione all’assetto delle falde acquifere vicine alle zone di risalita del magma. Non si capisce se il riempimento del cratere è dovuto a una prima emissione di lava oppure a un sollevamento del fondo, deformato dai gas e dalla massa calda in movimento.
Nella notte fra il 15 e il 16 dicembre i terremoti diventano progressivamente più forti e più frequenti e sono percepiti anche a Napoli. L’intensificarsi dei terremoti nelle ore immediatamente precedenti l’eruzione è probabilmente legato all’apertura del condotto e alla fratturazione del cono.
2 – INIZIO DELL’ERUZIONE
Intorno alla mezzanotte del giorno 15, si vedono i primi bagliori sulla cima del cratere. Manso, da Napoli osserva “un fuoco grandissimo innalzarsi in parte verso il cielo e in parte scorrere giù dalle falde del Vesuvio simile a un fiume”.
E’ l’inizio dell’eruzione dal cratere centrale. Probabilmente si tratta di attività moderatamente esplosiva, con lancio di brandelli di magma sopra il cratere i quali, ricadendo ancora caldi, si saldano e formano delle piccole colate di lava sul pendio del cono.
La popolazione è ormai in preda al panico. Il Vescovo di Napoli, che risiede a Torre del Greco, ritiene opportuno fare rapido rientro per via mare a Napoli e ordinare una processione che, partendo dalla cattedrale, arrivasse alla chiesa del Carmine.
3 – FASE A COLONNA SOSTENUTA PLINIANA
Al mattino del 16 l’eruzione entra nel vivo. L’apertura del condotto ha probabilmente provocato una brusca diminuzione di pressione nel magma e innescato la liberazione di gas. Questo processo porta a un incremento rapido della pressione interna.
La pressione contro le pareti del vulcano finisce per fratturare il settore occidentale del cono. Lungo questa frattura vengono emesse pomici, ceneri e gas che formano un’alta colonna a forma di pino (colonna pliniana).
La colonna eruttiva si allarga, per effetto del vento, prevalentemente verso Nord-Est e da essa ricadono ceneri e pomici che ricoprono i paesi vesuviani. Le ceneri più fini, disperse dai venti di alta quota, già a metà del giorno 16 raggiungono la Puglia e successivamente le coste della Jugoslavia.
Verso le 13 del giorno 16, anche la città di Napoli viene investita da ceneri che rendono difficoltosa la respirazione. Intorno alle 14 dello stesso giorno, il Viceré dà ordine ad una deputazione di saggi di recarsi in prossimità del vulcano per osservare gli eventi.
La delegazione del Viceré incontra a Pugliano gente proveniente da Torre del Greco che sconsiglia di proseguire oltre. Tornati sui loro passi, incontrano gli abitanti dei paesi Vesuviani che avevano cercato riparo in Napoli, da dove erano stati però scacciati per paura di pestilenze.
Intanto, alle 15, ha l’inizio la processione e, poco dopo, si incomincia ad avvertire in città un tremito continuo delle case causato dall’aumento del tremore vulcanico.
Intorno alle 18 la processione giunge al Carmine accompagnata da un sempre più intenso tremore vulcanico e dalla caduta di cenere. Per la paura, persino le prostitute diedero “alle loro sozze lascivie avventuroso bando” (Giuliani).
Il Viceré ordina al Marchese Campi di recarsi alle porte e oltre per far rientrare nella città i profughi respinti alcune ore prima. Il Marchese si avvia sotto la pioggia di cenere e acqua, giunge fino a Portici e da qui ritorna a Napoli, insieme alla delegazione del Viceré, giungendovi intorno alle 10 di sera.
4 – FASE A COLONNA PULSANTE
Una colonna pliniana può restare sostenuta fino a quando la sua densità è inferiore di quella dell’aria circostante. Quando il flusso di materiale eruttato aumenta, la colonna diventa densa e pesante e collassa lungo i fianchi del vulcano formando correnti piroclastiche.
Si ritiene che molte eruzioni esplosive evolvano da fasi puramente pliniane a fasi a impulsi, con alternanza di colonna sostenuta e colonna collassata. Il meccanismo è probabilmente governato in profondità dal riaggiustamento delle condizioni di equilibrio tra pressione interna e pressione esterna.
Nella notte, da Napoli si vede il fuoco in cima al cratere, mentre cenere mescolata a pioggia cade sempre più copiosa sulla città. I boati e i terremoti si intensificano.
Il Governatore decide di inviare messaggeri a Pozzuoli, Cuma e Somma. Il messaggero spedito a Somma è costretto a fermarsi alla Madonna dell’Arco, in quanto il cammino è impedito dalle pietre e dalle ceneri cadute, nonché dal “fuoco a gran furia sceso, a guisa d’un rapido torrente scorrendo” (Giuliani).
Tornato rapidamente indietro, riferisce l’accaduto al governatore, il quale ordina che un nuovo messaggero porti con sé reliquie sacre da buttare in questo torrente per trattenerlo.
Probabilmente il torrente di fuoco è un flusso piroclastico e l’eruzione è entrata nella fase a colonna eruttiva pulsante. Infatti, la mattina seguente (verso le 9 del 17 dicembre) la colonna è di nuovo sostenuta e riprende la caduta di lapilli e di blocchi nelle zone a Nord-Est del vulcano e di cenere a Napoli.
Fino a circa mezzogiorno del 17, la densa pioggia di cenere nera impedisce ogni visione del Vesuvio da Napoli fino a quando una violenta pioggia schiarisce l’aria e ripulisce i tetti dalla cenere caduta durante la notte e la mattinata.
5 – FASE DEI FLUSSI PIROCLASTICI
Verso le 11 del 17, preceduta da una forte scossa di terremoto, l’eruzione raggiunge la sua massima violenza. Subito dopo la forte scossa, in tutto il golfo le acque del mare si ritirano lasciando in secca le barche, per tornare dopo una decina di minuti con un’alta ondata che raggiunse, nel porto di Napoli, 4 o 5 metri di altezza.
Dal Vesuvio viene eruttata una tale quantità di materiale che il cono sembra disfarsi in numerosi flussi che scorrono veloci verso il mare. “Si mise tosto a uscire, seco insieme traendo le molte grosse e infocate pietre, tanta copia d’acqua, mischiata di cenere, di rena e di liquefatto bitume, solfo e allume, che d’essa fattisi in un batter d’occhio, cinque bei grossi torrenti, con tanta furia giù del Monte calarono che di tanti bellissimi poderi, non fu albero” (Giuliani).
E’ ipotizzabile che questa fase eruttiva sia innescata dall’impossibilità della pressione interna di continuare a controbilanciare quella esterna. L’eruzione ha già espulso grandi quantità di magma e di gas e le rocce soprastanti, fratturate, gravano sul serbatoio magmatico in parte svuotato, fino a collassare.
Il forte terremoto della mattina del 17 è riportato da tutte le testimonianze e deve avere un’origine profonda per essere avvertito in maniera così nitida da tutti. E’ quindi pensabile che esso coincida con il collasso delle rocce in profondità e che questo abbia convogliato all’interno del serbatoio non solo rocce, ma anche falde acquifere.
Lo sprofondamento sotterraneo si ripercuote fino alla superficie, deformando e fratturando ulteriormente il cono. Inoltre, al contatto col magma, l’acqua evapora e incrementa di nuovo la fase gassosa interna, provocando forti esplosioni. L’eruzione trova una facile via di uscita in un apparato ormai completamente in disfacimento e il materiale esce copioso formando dense correnti piroclastiche.
Questi flussi provocheranno i danni maggiori in quanto investiranno e distruggeranno numerosi centri abitati. Uno sembra minacciare la stessa città di Napoli.
Lo studio dei depositi lasciati da altre eruzioni esplosive ha rivelato che l’evoluzione da colonna pliniana a flussi piroclastici, passando attraverso una fase a colonna pulsante, è frequente (si veda ad esempio l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. che distrusse Pompei).
6 – FASE DELLE COLATE DI FANGO E DEI LAHAR
Ai flussi piroclastici veri e propri seguono i torrenti di fango che scendono dal Vesuvio fino alle 14 del giorno 17. I torrenti di fango, oltre a sconvolgere la parte a Sud del vulcano, investono in particolar modo la zona che va da Palma a Nola, allagando tutte le campagne.
Questo fenomeno è quasi sempre riportato dopo le grandi eruzioni del Vesuvio. I materiali incoerenti ammucchiati durante l’eruzione, vengono facilmente asportati dalla pioggia e convogliati in torrenti che si ingrossano via via che scendono verso il basso. La notte del 16 e la giornata del 17 sono state battute da violenti piogge.
L’eruzione comincia a declinare dopo le 14-15 del 17 e nel tardo pomeriggio si vede sul cono una colonna sostenuta chiara, dalla quale per alcuni giorni ricade poca cenere. Si registrano anche isolate esplosioni che decrescono di intensità col passare dei giorni.
Frane di materiale vulcanico (lahar), in parte ancora caldo, si susseguono il 17 e i giorni seguenti, insieme a vere e proprie inondazioni di acqua, dovute al persistere del cattivo tempo e al fatto che la permeabilità del terreno è notevolmente ridotta dallo strato di ceneri bagnate che lo ricopre in più punti.
Alla fine dell’eruzione il cono del Vesuvio appare ribassato di un terzo della sua altezza originaria
DANNI E CONSEGUENZE DELL’ERUZIONE
“La memoria delle calamità recateci dall’Incendio del Vesuvio più meritava di essere scancellata con lagrime di vera compunzione, e seppellita nel baratro di un perpetuo silenzio, che ravviuvata e rappresentata a’ posteri.”
Queste parole dell’Abate Giulio Cesare Braccini rendono l’idea del clima di sgomento lasciato dalla catastrofe che distrusse
“popolate Terre, e deliziose Ville, ornate di ricchi, e sontuosi edificij, e in molti luoghi di amplissimi Palazzi distinti l’uno dall’altro da ben coltivati orti, e vaghi giardini.“
Nel mese di febbraio, poco più di un mese dopo l’eruzione, l’abate si reca sul Vesuvio, essendo prima passato per molte
“delle Terre danneggiate, parte dal fuoco, parte dalle ceneri, altre dalle piovute pietre, e molte più dall’acque”.
Tre miglia fuori Napoli, in direzione di Ottaviano, tutta la campagna è ricoperta di cenere e non si vede nepppure un filo d’erba. Terre e casali di S. Giorgio a Cremano, di S. Sebastiano, di Massa, di Pollena e di Trocchia sono distrutti.
Duecento case di Sant’Anastasia sono state sfondate dalla cenere e ancora più numerose quelle colpite a Somma. Da Ottaviano, girando attorno al Vesuvio per tre miglia, ogni cosa appariva spianata dai flussi piroclastici. Bosco è completamente distrutta, a Torre Annunziata sono rimaste in piedi solo quattordici o quindici case, oltre a un palazzo e al Castello del Principe di Butero.
Anche la campagna fino a Ercolano è tutta ricoperta di cenere, in alcuni punti alta più di 12 palmi. A Torre del Greco sono rimasti illesi il Palazzo della Principessa, la Chiesa di S. Maria della Grazia, il Convento dei padri Reformati dell’Osservanza, l’appartamento del Cardinale Arcivercovo la Chiesa degl’Incurabili. Molte case che non sono crollate risultano gravemente danneggiate.
“Calculano persone di buona esperienza, che il danno solo di questi edifici rovinati così sacri come profani passi il valore di due milioni di ducati. Giudicandosi che il solo territorio arbustato, che è rimasto atterrato fusse più di 15 mil. di tumula, e che valesse da tre conti d’oro: e che altrettanta, e maggior quantità se ne sia perduto di boschi, e castagneti, che passavano il valore di altri due conti. Il qual danno congionto con quello, che hanno ricevuto molte massarie, stimo, che passi il valore di 25 milioni di ducati, quanto non vale un Regno.” (Braccini)
Altri danni sono registrati in zone lontane dal Vesuvio. Francesco Scandone, nella sua “Storia di Avellino”, riporta una lettera datata 30 dicembre 1631 in cui il Viceré esprime al Vescovo di Cirene il dispiacere prodotto dalla notizia del danno che han ricevuto i luoghi della comarca di Avellino
“per i lapilli caduti per l’incendio della Montagna di Somma”
Nella stessa lettera si ordina anche di far macinare tutto il grano esistente nei magazzini “per il bisogno del pubblico finché si apra il cammino per il commercio”, cioé la via di comunicazione verso la Puglia.
I danni subiti dalla città di Avellino sono ricordati in una lettera del Sindaco datata 1 aprile 1632:
“Il sindaco et eletti esponeno come con l’occasione dell’incendio della Montagna di Somma è cascata in detta città numerosa quantità di arena et per sollevare le case per non farle cascare come era cominciato a succedere a qualcune, si è levata detta rena da sopra li tetti et buttata nella piazza et strade in modo che ve n’è per ogni strada 4 o 5 palmi. Per non deformare la città e non impedire il commercio si chiede e si ottiene licenza di 200 ducati per comprare un terreno libero e portarvi la cenere.”
I ducati divennero poi 500 e, per sovvenzionare la spesa, il 30 aprile si proroga l’esazione di una gabella detta indauro, “quali si esige dalli potecari de’ salsume et carni salate”. A causa della caduta di ceneri, i paesi di Montella, Nusco, Bagnoli, Lioni, Teora, Volturara, Salsa, Atripalda e Solofra non dovevano essere molestati con richieste di soldati e di cavalli perché tutte gravate da molti altri pesi. La caduta di cenere distrusse buona parte dei raccolti causando carestie e, come conseguenza, brigantaggio.
In una cronaca di S. Angelo dei Lombardi, il 13 aprile 1632, si legge che tal Giovan Giacomo Cecere soldato fuggiasco dagli stipendi di S.M. e contumace nella corte locale è inquisito di omicidio doloso per
“aver tirato un colpo di archibugio mentre era in città, e di poi, scorrendo la campagna a capo di gente armata, turbava la quiete di quei popoli quasi affatto rovinati dalle ceneri cadute per l’incendio del Vesuvio.”
Lo stato di disagio continuò per molto tempo. A lungo la città di Forino, in provincia di Avellino, litiga con il fisco per ottenere l’esonero dal pagamento del donativo regio
“a causa dei danni arrecati dalla rena del Vesuvio nell’eruzione del 1631”, danni che contavano il crollo di 400 case, la morte di tutti gli animali domestici e la perdita di tutto il raccolto. Fu concesso un primo esonero per cinque anni, rinnovato poi nel 1637 e ancora nel 1640.
BIBLIOGRAFIA
-
Braccini, G.C.; 1632, Dell’incendio fattosi nel Vesuvio a XVI di dicembre MDCXXXI e delle sue cause ed effetti, Roncagliolo, Napoli;
-
Gasparini P. Musella S., 1991, Un viaggio al Vesuvio, Liguori Ed. Napoli;
-
Giacomelli, L., Scandone, R.; 1992, Campi Flegrei Campania Felix, Liguori Ed. Napoli;
-
Giuliani, G.B; 1632, Trattato del Monte Vesuvio e de’ suoi incendi, E. longo, Napoli;
-
Le Hon, H.S.; 1865, Histoire complete de la grande eruption du Vesuve de 1631, Hayez, Bruxelles;
-
Manzo, G.B.; 1632, Lettere del Signor Giov.Battista Manzo Marchese di Villa in materia del Vesuvio, in L. Riccio, Documenti inediti, Napoli 1889;
-
Recupito, G.C.; 1635, Avviso dell’incendio del Vesuvio, ed. Longhi, Napoli;
-
Rolandi, G., Barrella, A.M., Borrelli, A; 1993, The 1631 eruption of Vesuvius, Journ. of Volc. and Geoth. Res., Vol. 58, n. 1-4, pp. 183-201;
-
Rosi, M., Principe, C., Vecci, R.; 1993, The 1631 Vesuvius eruption. A reconstruction based on historical and stratigraphical data, Journ. of Volc. and Geoth. Res., Vol. 58, n. 1-4, pp. 151-182;
-
Scandone, F.; 1950, Storia di Avellino, Armanni Ed., Napoli.