I FULMINI DI GIOVE? MOLTO SIMILI A QUELLI TERRESTRI ANCHE SE…

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I FULMINI DI GIOVE? MOLTO SIMILI A QUELLI TERRESTRI ANCHE SE…

Comportamento alla rovescia per i fulmini gioviani: c’è molta attività vicino ai poli di Giove, ma nessuna vicino all’equatore. Tutto il contrario di quanto accade sulla Terra
di Eleonora Ferroni
www.media.inaf.it

Rappresentazione artistica della distribuzione dei fulmini nell’emisfero settentrionale di Giove in un’immagine scattata dalla JunoCam. I dati della missione Juno della Nasa indicano che la maggior parte dell’attività dei fulmini su Giove è vicina ai suoi poli. Crediti: Nasa / Jpl-Caltech / SwRI / JunoCam

Mentre si avvicina il prossimo flyby della sonda Juno della Nasa attorno a Giove (il 16 luglio), gli esperti sono riusciti a risolvere uno dei più grandi misteri di questo gigante gassoso: come nascono i fulmini gioviani e in cosa sono simili o diversi da quelli terrestri?

Dopo essere stati teorizzati per secoli, nel 1979 finalmente gli scienziati ebbero la conferma della loro esistenza grazie ai dati raccolti dalla sonda della Nasa Voyager 1. I dati mostrarono un’anomalia rispetto a ciò che era stato teorizzato: i segnali radio associati ai fulmini non corrispondevano ai segnali radio prodotti dai fulmini qui sulla Terra.

«A prescindere dal pianeta, i fulmini si comportano come trasmettitori radio – emettono onde radio quando attraversano il cielo», ha detto Shannon Brown del Jet Propulsion Laboratory della Nasa a Pasadena, in California, scienziato di Giunone e primo autore dello studio pubblicato su Nature. «Ma fino all’arrivo di Juno, tutti i segnali dei fulmini registrati dalle sonde (Voyager 1 e 2, Galileo, Cassini) erano limitati ai rilevamenti visivi o all’intervallo di kilohertz dello spettro radio, nonostante la ricerca di segnali nell’intervallo dei megahertz». Diverse le teorie per spiegare questo fenomeno, ma nessuna conferma.

Juno è arrivato nell’orbita di Giove il 4 luglio 2016 e da allora studia il pianeta con il suo fornitissimo set di strumenti, tra cui il Microwave Radiometer Instrument (Mwr) che registra le emissioni provenienti dal gigante gassoso per un ampio spettro di frequenze. Solo durante i primi 8 passaggi ravvicinati, lo strumento Mwr ha rilevato ben 377 fulmini. Perché non sono stati visti prima? In realtà Juno, a differenza di altre sonde, vola molto più vicino all’alta atmosfera e quindi ai fulmini. «Diamo la caccia a una frequenza radio che passa facilmente attraverso la ionosfera di Giove», ha aggiunto Brown.

Anche se relativamente simili a quelli sulla Terra, i fulmini su Giove si comportano diversamente, come ha spiegato Brown: «La distribuzione dei fulmini su Giove è alla rovescia rispetto alla Terra. C’è molta attività vicino ai poli di Giove, ma nessuna vicino all’equatore. Chiedi a chiunque viva ai tropici: questo non è vero per il nostro pianeta».

Ma perché succede questo? I fulmini seguono il calore, ecco spiegato il comportamento su entrambi i pianeti. La zona equatoriale sulla Terra è quella che riceve maggior calore dal Sole, ed è dunque più facile trovare violenti temporali e scariche di fulmini nell’atmosfera corrispondente a quelle aree. Su Giove è leggermente diverso, perché il gigante gassoso riceve dal Sole 25 volte meno calore rispetto al nostro pianeta. Come sulla Terra, l’equatore è la zona più “calda”, ma non abbastanza da creare instabilità nell’atmosfera. Ai poli l’atmosfera è meno stabile e ciò permette ai gas caldi provenienti dall’interno di Giove di salire, favorendo la convezione e quindi i fulmini.

Un secondo gruppo di studiosi, guidati da Ivana Kolmašová della Czech Academy of Sciences di Praga, ha elaborato il più grande database di fulmini a basse frequenze emessi su Giove. La ricerca è stata pubblicata su Nature Astronomy. Gli esperti hanno raccolto più di 1600 segnali, cioè 10 volte di più quelli raccolti a fine anni Settanta da Voyager 1. Parliamo di 4 fulmini al secondo, più o meno il tasso che viene registrato sulla Terra durante un temporale.

Oltre a studiare fulmini e temporali gioviani, Juno si propone di dare risposte ad altre questioni fondamentali ancora irrisolte sul pianeta stesso, la sua formazione e la sua evoluzione. L’Italia partecipa alla missione con due strumenti: Jiram (Jupiter InfraRed Auroral Mapper, coordinato dall’Istituto di astrofisica e planetologia spaziali dell’Inaf) per le studio delle aurore e dell’atmosfera, e un transponder in banda Ka per studi gravitazionali.

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