Il modello Sarno vent’anni dopo: un disastro che non ci ha insegnato nulla

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Il modello Sarno vent’anni dopo: un disastro che non ci ha insegnato nulla

Il Dossier “Fango” di Legambiente sugli interventi effettuati e criticità. In Italia l’88% dei comuni è in zone a elevato rischio: dal 1945 spesi 3,5 miliardi all’anno per risarcimenti e riparazioni dei danni da dissesto idrogeologico. Nei territori colpiti dalla tragedia del ’98 investiti oltre 400 milioni di euro per realizzare un complesso sistema ingegneristico oggi lasciato senza manutenzione
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«Quattordici ore di inferno che resteranno per sempre impresse nella memoria del nostro Paese. Sono trascorsi venti anni dal 5 maggio del 1998, quando un immane disastro spazzò via i comuni campani di Sarno, Siano, Quindici, Bracigliano e San Felice a Cancello, causando la morte di 160 persone– di cui 137 nella sola cittadina sarnese – provocando la distruzione di 180 case e danneggiandone più di 400, con migliaia di sfollati e ferite tutt’oggi aperte. Le quattordici ore di Sarno hanno segnato un solco indelebile non soltanto su quei versanti, ma anche nel modo in cui l’Italia tutta – da nord a sud, dalle istituzioni ai cittadini – ha dovuto prendere coscienza della fragilità e vulnerabilità del proprio territorio; di quanto davanti a certi eventi, seppur estremi e non sempre prevedibili in termini di dimensioni e localizzazione, la mano dell’uomo ha avuto e continua ad avere le sue responsabilità». E’ quanto ricorda Legambiente che si chiede: «Cosa è cambiato da allora?» e risponde con il dossier “Fango – il modello Sarno vent’anni dopo” presentato oggi e che definisce « Un approfondimento per analizzare le cause di quella tragedia, le conseguenze e gli sviluppi giuridici, ma soprattutto per capire cosa è successo in questo lungo lasso di tempo; quali sono state le soluzioni messe in campo per fronteggiare il rischio – non solo nelle aree interessate ma più in generale nell’intero Paese – e se le cause che hanno contribuito all’amplificazione della tragedia sono state estirpate o meno».

Secondo il  Cigno Verde, «Appare subito evidente che Sarno ha insegnato poco o nulla a un paese, l’Italia, che com’è noto presenta un elevato rischio sia idrogeologico che sismico. Fenomeni franosi, smottamenti e esondazioni interessano ben l’88% dei comuni italiani (sono 7.145 classificati a elevato rischio) e solo per fronteggiare i danni provocati da questi eventi estremi, tra il 1944 ed il 2012, sono stati spesi circa 61,5 i miliardi di euro. Secondo i dati di “Italia sicura”, il nostro Paese è anche tra i primi al mondo per risarcimenti e riparazioni dei danni da eventi di dissesto: dal 1945 l’Italia paga in media circa 3,5 miliardi all’anno. Dal 2010 al 2016, inoltre, le sole inondazioni hanno provocato in Italia la morte di oltre 145 perso­ne e l’evacuazione di oltre 40mila persone (dati Cnr). Nel triennio 2013/2016 le regioni colpite da alluvioni o fenomeni franosi sono state 18, con la conseguente apertura di ben 56 stati emergenzialie un danno economico di circa 7,6 miliardi di euro. Nonostante questo, lo sfrenato consumo di suolo continua ad avanzare inesorabilmente aumentando sempre più le difficoltà: nelle aree soggette a frane il suolo artificializzato ricopre quasi il 12% del totale, mentre intorno ai fiumi (fino ad una distanza di 150 metri) il suolo impermeabilizzato è arrivato al 7%. Rispetto a questo scenario la Campania si inserisce in maniera lineare nella complessità della situazione: dei 550 comuni totali sono 503 (il 91%) quelli in cui ricadono aree classificate a elevato rischio idrogeologico; territori dove vivono oltre 544mila persone e sono presenti scuole, beni culturali, attività produttive e commerciali».

Il dossier di Legambiente spiega che «Il “modello Sarno” rappresenta un complesso sistema ingegneristico (che va visto la realizzazione di una rete di circa 20 km di canalizzazioni e un sistema di 11 enormi vasche di raccolta) arrivato a costare oltre 400 milioni di euro rispetto ai 161 previsti inizialmente, anche per la realizzazione di interventi in altri comuni dell’area negli anni a seguire. A tutt’oggi però non è chiaro chi deve occuparsi della manutenzione dei canali e delle vasche e soprattutto con quali fondi. E, infatti, in questo vuoto legislativo sono stati effettuati rarissimi interventi di pulizia. Appare inoltre evidente come il solo ricorso al mero calcolo idraulico per la realizzazione delle opere e degli interventi di mitigazione non è più sufficiente ma anzi potrebbe rivelarsi addirittura controproducente».

Secondo Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente, «La tragedia di Sarno ha fatto da spartiacque in Italia anche rispetto alla legislazione in materia, ma purtroppo ci ha insegnato poco C’è ancora una forte discrepanza tra le evidenze, la conoscenza, i danni, le tragiche conseguenze del rischio idrogeologico nel nostro Paese e la mancanza di un’azione diffusa, concreta ed efficace di prevenzione sul territorio nazionale. A vent’anni da quella tragedia è ormai evidente che occorre un approccio diverso basato su politiche urbanistiche e territoriali di adattamento al clima per ridurre gli effetti devastanti che frane e alluvioni continuano ad avere sul nostro territorio, come ad esempio la delocalizzazione degli edifici più a rischio. Ma serve anche un’efficace azione di prevenzione che passa inevitabilmente attraverso la diffusione di una cultura della convivenza con il rischio, attraverso piani comunali di emergenza di Protezione Civile adeguati e aggiornati e attività di formazione e informazione per la popolazione sui comportamenti da adottare in caso di allerta». 

Il dossier mette in luce come «le piogge che si erano abbattute in quelle ore su quei territori, seppur intense, non erano tali da giustificare un disastro del genere». Allora cos’è che ha contribuito all’innescamento di una colata di circa due milioni di metri cubi di fango? «Forse – dicono gli ambientalisti – il fatto che le pendici delle montagne nell’area di Sarno erano state soggette a continui incendi nel corso degli anni (nel censimento del 1990 fu registrato un calo della superficie boschiva rispetto a otto anni prima del 13,4%); oppure che i canali di impluvio della montagna erano quasi completamente scomparsi. Già nel 1993 Legambiente aveva denunciato il rischio di frane che incombeva su tutta l’area. Non ha giovato sicuramente il fatto che quella che era l’oasi felice dell’Agro sarnese-nocerino, in piena Campania Felix, è stata negli ultimi cinquant’anni una terra martoriata dal sacco edilizio e dall’abusivismo edilizio. Le stesse dinamiche e le stesse cause che avevano agito in passato sono continuate e perpetrate fino ai giorni nostri. Negli ultimi 20 anni, nei comuni di questo comprensorio, sono state oltre 27mila, secondo le stime delle forze dell’ordine, le persone denunciate per abusi edilizi, in pratica il 10% della popolazione residente. In otto dei comuni dell’Agro (Angri, Bracigliano, Nocera Inferiore, Nocera Superiore, Sarno, Scafati, Siano e Roccapiemonte) a seguito dei tre condoni (L. 47/1985, 724/1994 e 269/2003) Legambiente ha censito ben 24.420 richieste di sanatoria: sostanzialmente una nuova città di medie dimensioni tutta da rimettere in regola. Anche qui gli episodi di abusivismo quasi mai si concludono come vorrebbe la legge, ossia con le demolizioni. Negli stessi comuni sono state infatti emesse 4,091 ordinanze di demolizione negli ultimi dieci anni e di queste risultano eseguite appena l’uno per cento».

Il dossier di Legambiente, «Vista l’elevata pericolosità presente sul territorio e l’effettiva lungaggine dei tempi per realizzare le opere necessarie a mitigare il rischio idrogeologico a livello regionale», ha effettuato anche un monitoraggio per misurare il livello di trasparenza, accessibilità e sensibilizzazione dei piani di protezione civile nei 39 comuni del Bacino del Sarno.

Mariateresa Imparato, presidente di Legambiente Campania, ricorda che «Il piano di protezione civile è uno strumento necessario per la corretta pianificazione e gestione dell’emergenza e dovrebbe essere uno strumento largamente diffuso e conosciuto dalla popolazione, ma non è affatto così. La nostra indagine, effettuata sui siti istituzionali dei comuni dell’area, evidenzia che solo in 14 di questi, pari al 35%, il piano è immediatamente visibile e accessibile in home page. Nei restanti comuni il link non esiste o non è facilmente individuabile. Insomma, è tutt’altro che semplice per un cittadino conoscere i rischi del proprio territorio e come portarsi in caso di pericolo. E non c’è nessun alibi per le amministrazioni campane, visto che sono state beneficiarie di oltre 15 milioni di fondi comunitari destinati alle emergenze idrogeologiche con gli strumenti di prevenzione: piani di emergenza, strutture operative comunali, attività di informazione e addestramento delle comunità. Questo non è più possibile perché come dimostra la tragedia di Sarno e le tante altre che si sono succedute in questi ultimi vent’anni, si paga sempre con gli interessi quello che ieri abbiamo trascurato».


Legambiente avanza alcune proposte: «Occorre partire da un cambio di cultura e di approccio che punti ad una formazione ed informazione basata sulla convivenza con il rischio. Occorrerebbe approfondire la cono­scenza del territorio e delle sue dinamiche introducendo l’elemento del rischio in tutte le politiche di gestione del territorio, a partire dalla pianificazione urbanistica e dai criteri che regolano la costruzione e la ristruttura­zione degli edifici,realizzando una vera e propria inversione di tendenza rispetto all’ap­proccio classico di sistemazione idraulica dei corsi d’acqua, idrogeologica dei versanti e all’urbanizzazione selvaggia, adottando come principale strumento di difesa il corretto uso del suolo. Infine, sfruttare tutte le opportunità che la legislazione offre per far sì che, invece di difendere strenuamente ed a tutti i costi ogni cosa, si preveda più ragionevolmente di delocalizzare gli edifici presenti nelle aree a rischio; in particolar modo per quanto riguarda le strutture abusive queste dovrebbero essere abbattute come previsto dalla legge ma ancora oggi questa pratica non viene applicata anche se ci sarebbero i fondi a cui poter attingere per realizzarla».

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