Un gruppo di scienziati del Regno Unito ha migliorato involontariamente le performance di un enzima, cioè una proteina che ha il compito di favorire una reazione biochimica, prodotto da un batterio mangia-plastica. In genere la plastica resistente usata per le bottiglie d’acqua (polietilentereftalato o PET), impiega diverse centinaia di anni a degradarsi.
L’enzima modificato, ribattezzato PETase, può avviare lo stesso processo in pochi giorni. E anche se la sostanza è lontana diversi anni dall’essere commercializzata, ha tutte le carte in regola per rivoluzionare il riciclo di questo materiale: attualmente nel mondo si vendono un milione di bottiglie di plastica al minuto, e solo il 14% di esse è correttamente riciclato.
Dal riciclo, di solito, si ottengono fibre di minore qualità, usate per produrre abiti e tappeti. Il nuovo enzima descritto su Proceedings of the National Academy of Sciences, permetterebbe invece di tornare ai “blocchi di partenza”, cioè alla materia prima – il PET – in qualità invariata.
La versione originale dell’enzima è naturalmente prodotta da un batterio ghiotto di plastica: l’Ideonella sakaiensis, individuato per caso in un sito per il riciclo di bottiglie nel porto di Sakai, in Giappone, e descritto nel 2016. Anche se il PET è in circolazione da circa 50 anni, questo materiale è naturalmente presente, per esempio, come rivestimento protettivo sulle foglie delle piante. I batteri hanno avuto milioni di anni a disposizione, per imparare a digerirlo.
Inizialmente, gli scienziati hanno utilizzato il Diamond Light Source,uno strumento vicino a Oxford che produce raggi X 10 miliardi più intensi di quelli del Sole, per dettagliare la struttura atomica dell’enzima. Questo è parso molto simile a quello prodotto dai batteri per degradare la cutina, la sostanza idrofoba che riveste molte parti esposte delle piante.
Ma quando il team ha alterato la struttura dell’enzima per esplorare questa connessione evolutiva, le sue capacità di degradare il PET sono migliorate del 20%. Può non sembrare molto, ma vuol dire che il PETase non è ancora ottimizzato per funzionare al massimo, e che la tecnologia potrebbe renderlo, nei prossimi anni, ancora più veloce.
Un futuro più pulito. Una possibilità potrebbe essere, per esempio, trasferirlo su batteri estremofili (gli “highlander” dei microbi) capaci di sopportare temperature superiori ai 70 °C di fusione del PET: la plastica si degrada infatti molto più rapidamente, quando è sciolta. Inoltre, poiché l’enzima mutante sembra capace di restituire i mattoni di base usati nella produzione, poterlo impiegare in ambito industriale vorrebbe dire riciclare completamente, senza bisogno di impiegare nuovi combustibili fossili per fabbricare nuove bottiglie.