CNR: L’Artico si riscalda più del resto del pianeta

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CNR: L’Artico si riscalda più del resto del pianeta

Evidenziata la progressiva “atlantificazione” di un fiordo delle Svalbard e il permafrost dell’Artico libera gas serra
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Il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) è presente nell’Artico con la base Dirigibile Italia e sottolinea che si tratta di «un luogo fragile e cruciale per la Terra, si sta riscaldando in modo molto maggiore di quanto avvenga nel resto del pianeta. In tale regione molti processi legati al cambiamento climatico possono essere amplificati. Ad esempio, il ritiro dei ghiacci causato dal riscaldamento causa ulteriore riscaldamento perché riduce l’albedo (la capacità delle superfici “bianche” di riflettere la radiazione solare), il riscaldamento della colonna d’acqua in assenza di ghiaccio estivo porta allo scioglimento del fondale marino perennemente ghiacciato (permafrost), con la possibilità che il metano intrappolato nei fondali marini possa essere ceduto all’atmosfera, conseguente aumento di concentrazione di questo gas serra e ulteriore riscaldamento del pianeta».

Il presidente del Cnr Massimo Inguscio ricorda che «La ricerca scientifica italiana in Artico contribuisce agli studi internazionali e interdisciplinari per aumentare la conoscenza dei cambiamenti climatici. Il fine è informare i policy maker, la comunità scientifica, le organizzazioni internazionali, le singole persone e, al tempo stesso, collaborare a mitigarne gli impatti e consentire una gestione sostenibile degli ecosistemi naturali e dell’attività umana nella regione».

Attualmente Il Cnr sviluppa nella sua stazione artica si esplica più di  20 progetti di ricerca riguardanti fisica dell’atmosfera, oceanografia e biologia marina, geologia e geofisica, indagini sugli ecosistemi e sul paleo clima e ora pubblica due risultati di queste ricerche complesse ed essenziali.

Un ancoraggio (mooring) posizionato dal Cnr nel Kongsfjorden alle Isole Svalbard misura da 7 anni il riscaldamento delle acque e la stagionalità del ghiaccio marino. I dati permettono di misurare temperatura, salinità e altri parametri su tutta la colonna d’acqua per un centinaio di metri di profondità e vengono confrontati con quelli della Amundsen-Nobile Climate Change Tower – sempre alle Svalbard – la torre con cui da 10 anni il Cnr monitora l’atmosfera. I ricercatori italiani dicono che «I dati integrati mare/aria dell’ancoraggio nel fiordo e della torre documentano in Artico un indubitabile aumento delle temperature. L’aumento della temperatura di aria e acqua ha anche un ulteriore inequivocabile impatto sulla velocità di scioglimento dei ghiacciai e sui flussi di “particellato”, il materiale solido che questi portano nel fiordo».

Leonardo Langone dell’Istituto di scienze marine del Cnr (Ismar-Cnr), spiega: «Dai risultati, in corso di pubblicazione su una rivista scientifica, è molto chiara la progressiva “atlantificazione” del fiordo con un incremento della temperatura dell’acqua intermedia di 4.3 °C/decade”, Sul fondo, il tasso di aumento della temperatura è minore ma sempre rilevante (1.6° C/decade). Con la temperatura cresce anche la salinità (con un tasso di 0.7 unità per decade) e questo può portare a cambiamenti nella struttura della colonna d’acqua. L’aumento di temperatura dell’aria alla Climate Change Tower è stimato in 3.0° C per decade, nettamente al di sopra della crescita media della temperatura mondiale, e in Artico in generale».

Insomma, la temperatura media in Artico cresce più velocemente che nel resto del pianeta e nei fiordi cresce più velocemente che nel resto dell’Artico. Langone aggiunge: «La velocità di riscaldamento dell’acqua è maggiore perché nei fiordi entra più acqua atlantica, con ripercussioni sulla diminuzione del ghiaccio marino (in alcuni anni, addirittura, i fiordi durante l’inverno non si ghiacciano più), sul tipo di alghe e, quindi, sulla catena trofica e, più in generale, sull’intero ecosistema dei fiordi. Tutte le stagioni registrano un cambiamento ma è l’inverno che sta registrando il riscaldamento più rapido. Il Kongsfjorden alle Svalbard rappresenta un laboratorio naturale per lo studio dei cambiamenti climatici nei fiordi artici. I fiordi sono un elemento molto comune del sistema artico, solo la Norvegia ne conta più di mille. Quello che capiamo qui può essere applicato ad altri contesti analoghi, come per esempio in Groenlandia e nel Nord America».

Lo studio “Bounding cross-shelf transport time and degradation in Siberian-Arctic land-ocean carbon transfer”  condotto dal Cnr in collaborazione con  l’università di Stoccolma e pubblicato recentemente su Nature Communications, riguarda invece lo scioglimento del permafrost siberiano.

Al Cnr fanno notare che «Il permafrost terrestre contiene circa 1.500 miliardi di tonnellate di carbonio organico, essenzialmente resti di biomassa vegetale. Lo scioglimento del permafrost causa pertanto la riattivazione di questa biomassa che determina per via batterica la produzione di gas serra come metano e anidride carbonica (CO2). Le paure legate a tale fenomeno nascono da due aspetti centrali: la quantità di carbonio organico presente nel permafrost, oltre due volte superiore al contenuto di carbonio presente in atmosfera prima della rivoluzione industriale; l’amplificazione polare, in quanto i tassi di riscaldamento in Artico sono già superiori rispetto alle medie e basse latitudini. Questi due elementi fanno del permafrost un potenziale feedback positivo al riscaldamento climatico: si stima che alla fine del 2100, il rilascio dei gas serra da parte del permafrost potrà raggiungere il 25% del corrispondente rilascio legato all’uso dei combustibili fossili: un 25% in più “gratuito” senza soddisfare un vero fabbisogno energetico».

Tommaso Tesi dell’Ismar-Cnr spiega: «Le stime di rilascio/degradazione hanno però delle grandi incertezze intrinseche legate ai limiti della nostra conoscenza del sistema artico. Proprio per questo, nonostante il permafrost venga definito il “gigante dormiente del cambiamento climatico”, i modelli previsionali dell’ultimo report Ipcc non lo hanno ancora incluso tra i vari feedback climatici. Lo studio pubblicato su Nature Communications si concentra sul permafrost scaricato in mare dai fiumi artici. Precedenti studi hanno evidenziato come le concentrazioni di carbonio organico proveniente dalla mobilizzazione del permafrost, lungo le piattaforme artiche, diminuiscano progressivamente seguendo il trasporto delle correnti. Mentre esiste largo consenso riguardo al fatto che questa diminuzione sia legata a una degradazione batterica, con produzione di gas serra, meno chiaro è il tasso con cui il permafrost viene degradato».

Grazie a datazioni mirate realizzate con una tecnica innovativa che utilizza radiocarbonio su molecole organiche, è stato possibile “cronometrare” il trasporto del permafrost lungo la piattaforma centro-siberiana e Tesi conclude: «Con sorpresa è emerso che il permafrost rilasciato dal Lena, il secondo fiume artico per bacino di drenaggio, e trasportato lungo il margine siberiano ha un tempo di residenza centenario-millenario sulla piattaforma. Questo implica che la degradazione e il conseguente rilascio di gas serra da parte dei sedimenti sono processi relativamente lenti. Se da una parte questa è una ‘buona notizia’, in quanto l’impatto rilasciato in mare è in parte mitigato nel breve periodo, dall’altra lo scioglimento e la degradazione del permafrost in oceano avrà comunque un impatto costante e continuato, anche se ridotto, per i prossimi secoli».

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