Il terremoto Mw 6.3 che distrusse Foggia il 20 marzo 1731
Usare la memoria storica anche in Puglia come strumento per la prevenzione sismica
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Era il 20 marzo del 1731, martedì santo: mentre la città e la campagna riposavano, alle ore 5 del mattino, d’improvviso la terra tremò:
Fu la scossa orribile del Tremuoto, e con moti diversi istantaneamente, tanto che in essa città di Foggia in istante rovinarono la maggior parte degli edifici tanto di chiese, che di particolari, e prima si vidde caduta, e rovinata in gran parte della città, e sepolta molta gente sotto le pietre, che si fossero potuti accorgere del Tremuoto. Durò questo così fiero moto per cinque minuti di ora, e indi fra lo spazio di un’Ave Maria ripigliò fieramente con lo stesso vigore, e scuotimenti, la cui violenza, e impeto si puol congetturare dall’aver l’acqua de’ pozzi dalla profondità di 30 in 40 palmi in molte parti sormontata la bocca, e allagato all’intorno.
Cessato che fu il Tremuoto, e cadute le abitazioni, il nembo della polvere, le grida della gente, che procurava salvarsi, chi ignudo, e chi mezzo coverto, la confusione nell’oscurità della notte, e i gemiti di coloro, che mezzo atterrati dalle rovine imploravano, erano di tal spavento e orrore, che giunto rassembrava il giorno estremo; aggiungendosi a tante miserie un freddissimo vento, che interiziva le membra, a gran pena potendosi passare per le strade ripiene di cadute muraglia, e di grandissime pietre, e tutti piangenti, abbandonando le case, e gli averi, fuori della città ognun fuggissine, tanto più che un’ora dopo si fe’ sentire altra scossa di Tremuoto: onde al comparir del giorno accrebbesi lo spettacolo nel vedere raccolta una turba ben grande di persone di ogni età, di ogni grado, e di ogni sesso, squallide, tremanti, e piene di polvere, chi ferito, molti stroppi, e alcuno spirante, chi mezzo vestito chi nudo affatto, chi fra cenci, o fra coltre involto, e in raffigurarsi accrescevasi in loro il dolore, e il pianto, raccordandosi chi de’ parenti sotto le pietre rimasti, o col supposto, che vi fussero per i più non doverli più vedere…
… La particolarità delle chiese, e case rovinate non si descrive, perché basta dire, che la terza parte della città è caduta, e le altre fabbriche rimaste in piedi, sono così aperte e lesionate, oltre d’essere in parte rovinate, che non sono accomodabili, tanto più che la continuazione de’ Tremuoti, (contandosene circa cinquanta), e con scosse assai violente, hanno finito di rovinarle, e renderle irreparabili, tanto, che sono andate, e ne vanno alla giornata cadendo; a riserva della chiesa e convento dei RRPP Cappuccini, del Conservatorio delle Pentite, eretto in tempo della felice memoria di mons. Cavalieri antecessore dell’odierno, del palaggio da detto vescovo per molti anni abbitato, e alcune altre poche case, e fondachi della piazza maggiore, quali sono rimasti in piedi, essendo ancora restati atterrati tutti li casini delle vigne, e massarie in quelle pianure edificati, e altre persone di campagna, esistenti in detti casini, e case, di modo che in quelle pianure non si vede edificio, che non sia rovinato.
Aggiunge l’anonimo che i morti furono circa mille tra Foggiani e forestieri, oltre ad altri duecento che perirono nelle campagne. Eppure, sembrò un miracolo che da tanta tragedia si fosse salvata una gran moltitudine:
Per così numerosa ruina di case, in ora che ognuno dormiva, e in un popolo, che ascende al numero di quindicimila senza i forestieri, de’ quali di continuo v’è gran copia, come ne siano rimasti in proporzione così pochi sotto le pietre non potrebbe capirsi, se non si ricorresse a’ prodigi della Divina Misericordia della Santissima Vergine dell’Assunta, chiamata in quella città Icona Vetere…
E’ ben difficile che sì disastrosi eventi si possano tradurre in cifre precise, specie quando si è estraneo spettatore atterrito; tuttavia, è innegabile che gravi furono i danni in città e nelle campagne, ed ogni indagine sui lutti può apparire irriguardosa e inopportuna. Il carattere prevalentemente ondulatorio del sisma, che ebbe a ripetersi per vario tempo e con diverse intensità sino a culminare in altro notevole il 7 maggio, fu la causa che determinò i maggiori lutti e danni alle costruzioni tipiche in murature di tufi.
Tra gli scampati furono Pasquale Malerba, all’epoca un bimbo di otto anni, poi canonico della Collegiata, e i suoi familiari. Egli ricorderà l’evento e la botte entro la quale, nel luogo detto S.Giuseppiello nel 1798, trovò salvezza col padre e con due suoi fratelli; mentre gli altri congiunti si salvarono sotto malconce tegole.
(fonte: Foggia – Città, territorio e genti – Vincenzo Salvato)
“Nell’alba fatale del 20 Marzo 1731, giorno in cui ricorreva il martedi santo, un’orrendo tremuoto in cinque minuti secondi distrusse la massima parte di Foggia, e molti abitatori ne rimasero vittime – Gli altri destatisi in sussulto dal fragoroso rimbombo fuggirono spaventati, ignudi e privi di tutto; di talché barcollando su i massi crollati al suolo riuscirono ad abbandonare le proprie case, senza sapere dove dirigere il passo – La chiesa maggiore di Santa Maria rovinò in gran parte: alquanto illesi rimasero il Convento de’ Padri Cappuccini, l’altro della Maddalena, la chiesa di San Giovanni Battista, e la cappella Maria SS. dell’Iconavetere. Le scosse succedevansi forti ed intense.”
“La popolazione sparsa per le diverse vie della campagna, sgomentata ed atterrita andava in cerca de’ figli, de’ genitori, e de’ congiunti, non tralasciando però in mezzo a tanto infortunio d’innalzare col pianto calde preci alla Vergine, il cui Tavolo già credevasi sotterrato dalle macerie – Generale era lo scoraggiamento: tutto spirava orrore – Ciò non di meno verso la sera di quel tremendo giorno il Sacerdote Don Giovanni Tudesco, forte della fiducia in Dio e nella Vergine, risolvette di attraversare le rovine, di penetrare nella cappella di Maria SS. e trarre dalla nicchia il sacro Tavolo – In vero può dirsi, che quella fu una divina ispirazione, perocchè egli riuscì appieno nel suo intendo – E ponendosi sulle spalle quel venerando ed amato peso, tra pianti e grida di commozione, giunse salvo insieme ad una parte del popolo nella chiesa de’ Padri Cappuccini situata fuori l’abitato; e quivi espose all’adorazione de’ fedeli l’Arca ammirabile del nuovo Testamento.”
(Da: Relazione della Festività celebrata in Foggia il dì 24 Maggio 1882 per il primo centenario dell’incoronazione del Sacro Tavolo di Maria SS. Dell’Icona Vetere o De’ Sette Veli Foggia – Stabilimento tipo-litografico Polllce – 1882)
Conseguenze del terremoto e i primi interventi:
Crollò il campanile della Collegiata, che riportò gravi danni in altre strutture; notevoli lesioni e crolli parziali o totali si ebbero in vari edifici civili e religiosi, oltre che nei più poveri rioni e nelle campagne.
Tra gli edifici civili della città, l’unico del quale si possono definire con precisione i danni è quello della Dogana, nella strada maestra di pozzo rotondo.
Tesi in un unico ammirevole sforzo amministratori e amministrati, superata la prima fase traumatica, si dettero con slancio all’opera di soccorso e, poi, gradualmente, a quella della ricostruzione. Eppure, quando ancora erano caldi i cadaveri sotto le macerie e le lacrime dei superstiti inondavano i cumuli, non mancarono da parte dei popolani atti tanto disgustosi da indurre il Presidente della regia Dogana marchese don Carlo Ruoti ad adottare i necessari provvedimenti.
Il 26 marzo espulse dalla città, per pratiche carnali, Antonio della Torre e Gaetana della Padula; il 19 luglio, su istanza di Francesco freda e di molti altri cittadini, impose a muratori, falegnami, embriciari, calciaroli e carrettieri di non pretendere mercede più del lecito, che si pagava prima di seguire il flagello del Terremoto… sotto la pena di mesi tre di carcere, ed altri a suo arbitrio.
In sì tragica circostanza, che imponeva decisioni di massima urgenza, non mancarono disposizioni tendenti a limitare un disordinato sviluppo urbanistico, a dare una prima sistemazione alla rete viaria e, infine, a prevenire epidemie.
Il 1° aprile il Ruoti, notando che molti osavano disseppellire i cadaveri nelle campagne per trasferirli in sepolture cittadine, vietò decisamente tale imprudente pratica; il 15 successivo ordinò ai carrettieri di scaricare le sfabricature causate dal terremoto nei fossi del tratturo di Gesù e Maria e nel luogo detto le Croci; infine il 4 luglio emise l’ordinanza con la quale proibì di costruire senza licenza onde evitare grande incomodo futuro alla città.
Si cercò, dunque, di fronteggiare la situazione evitando ulteriori gravi conseguenze. La fase di ricostruzione iniziò non molto dopo la tragedia, tanto che nel luglio si ebbero le giuste lamentele di tanti cittadini di fronte agli accennati ricatti degli addetti all’edilizia e ai trasporti. Essa fu molto lunga e andò ben oltre l’ascesa al trono di Napoli di Carlo III, avvenuta nel 1734.
Tra i primi edifici oggetto di riparazioni fu il convento di S.Francesco, che venne ampliato proprio nell’anno del terremoto; ma al restauro o alla ristrutturazione di tanti edifici maggiori si accompagnò anche un notevole sviluppo urbanistico in quella fascia di territorio suburbano che, in pochi anni, fu conglobata definitivamente nella cinta urbana.
Furono soprattutto i ceti meno abbienti a riversarsi sulle libere aree ove perpetuarono la vecchia architettura spontanea e popolare dei canalini, realizzando in serie, ancora una volta, tante lunghe teorie di baracche.
I tracciati delle nuove strade, sempre in terra battuta, si tenevano preferibilmente rettilinei e, cosa mirabile, si osservava quasi sempre un rapporto piuttosto basso tra costruzioni e larghezza delle sedi stradali.
Attraverso la porta, sovente fiancheggiata da un finestrino, dall’ampio spazio libero poteva filtrare più luce e qualche raggio di sole, che rendevano gli ambienti più accoglienti dei tanti fondachi terranei ubicati nei ristretti vicoli dell’antico centro.
Era urbanisticamente il ripristino di quella continuità storica rinnegata per certi aspetti spaziali durante almeno un cinquantennio del Seicento; architettonicamente era semplicemente una conferma di quella modesta “cultura artistica” che animava gli strati popolari.
Che il fenomeno urbanistico-architettonico fosse stato di carattere soprattutto popolare, sia pure sotto le larghe direttive doganali, non v’è dubbio alcuno, anche se in un primo momento tutta la gente si ritirò ad abitare con baracche fuori di essa città.
(fonte: Foggia – Città, territorio e genti – Vincenzo Salvato)
La grande tragedia che colpì la città di Foggia, ispirò il poeta napoletano Vincenzo Maria Morra che alla città dedicò il seguente lavoro letterario:
Vedo su la città l’aria sì oscura,
sì fiera, e sì terribile d’aspetto,
che ‘l rammentarla sol mi fa paura.
Vedo per ogni via, per ogni tetto
sparger d’orrendo incendio alte faville
Tesisene, Megera e l’empia Aletto.
Vedo a piè delle mura a mille a mille
gli abitatori della città infernale,
come chi dà l’assalto a suon di squille.
Altri le scale appoggia, e su vi sale
porta altri altrove inaspettata guerra,
e con ferro, e con fuoco i ponti assale.
Ferrata mazza altri a due mani afferra,
corre alle porte, e ciò che ‘n lui s’intoppa,
spezza, infrange, e i ripari abbatt’, e atterra;
Foggia va a terra, la possente antica,
famosa Foggia, che vantò corona
sovra l’Appula spiaggia al Ciel sì amica.
Fuggon vecchi, e fanciulli, ogni persona
nobil, o vil; ma il turbine fatale
né a sesso, né ad età guarda, o perdona.
Altri scampa, altri more, e nel ferale,
estremo eccidio alcun (ahi caso amaro)
pria v’è sepolto, che lo spirito esale.
Vedea le genti dissipate, e sparte
per varie strade, timide, e dogliose,
colla zappa alla man, con forza, ed arte
estinte ricercar persone ascose
sotto all’infrante mura, e ritrovate
pianger sovra di lor meste, e affannose.
Di sotto alle ruine altre scampate
vederne uscir, e vinte da spavento
fuggir alla campagna egre, e piagate.
(fonte: Maria Vincenzo Morra – Dalle ruine di Foggia penitente in XXIV canti, (Terremoto del 20 marzo 1731), Stamperia Arcivescovile, Benevento 1734. Le terzine qui riportate sono state riprese dai canti III, V e XIX)